XXIV domenica T.O. Anno A
Vangelo Mt 18, 21-35
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Commento 17 settembre 2023
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Perdono o vendetta? Di fronte al male che riceviamo o ad un torto subito, come ci poniamo? Per quanto mi riguarda la reazione immediata, quella che mi viene spontanea, non è certamente il perdono, ma il risentimento, il rancore, soprattutto quando la ferita che mi è stata inferta ha lasciato segni profondi che durano nel tempo: è naturale pensare, quindi, alla vendetta come restituzione del dolore che ci è stato provocato. Alcuni possono ritenere come Nietzche che chi perdona sia un debole, un incapace, un inetto nel far valere i propri diritti, altri come Freud possono pensare che il perdono sia una pretesa assurda e incomprensibile, dannosa per la salute psichica dell’individuo; ora la proposta cristiana va esattamente in senso contrario.
Gesù ha appena insegnato ai discepoli la via per “guadagnare” un fratello quando questi commettono del male nei loro confronti; è una strada lastricata d’amore fraterno fatta di tentativi ripetuti e costanti per tentare di salvare l’altro, per riportarlo su un percorso di vita, di gioia di felicità; è una strada segnata dall’unica medicina possibile di fronte al peccato la misericordia, ovvero quell’amore viscerale, materno per il quale ogni peccatore può ritrovare la strada giusta per riprendere il cammino verso il Signore. Mancava un ultimo ingrediente, il perdono, olio lenitivo di ogni male, capace di rigenerare in ogni fratello e sorella una vita nuova perché segno estremo e più alto dell’amore.
Pietro rimane sconcertato dalla proposta di Gesù e prova a dare una misura al perdono e all’amore, forse per rendersi conto di quanto ne fosse capace: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Al tempo di Gesù qualche rabbino, tra quelli più aperti ed illuminati, proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia e Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, prova ad esagerare, vuole spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì, sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione, quindi un perdono vero che partiva dal cuore e non limitato da una norma di tipo legale; Pietro, quindi, si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve.
La risposta di Gesù va ben oltre a ciò che già spaventava Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Gesù riprende le tremende parole di Lamec, figlio di Caino, per indicare la sua illimitata voglia di vendetta, ma ne rovescia il senso non ponendo limiti al perdono e dando a questo un orizzonte infinito. Sì, perché l’amore come il perdono non possono entrare in una logica economicistica per cui come l’unica misura dell’amore è amare senza misura, così l’unica misura del perdono è perdonare senza misura: si ama e si perdona in modo illimitato e infinito oppure non si ama, né si perdona! Gesù non alza l’asticella della morale, ma la elimina, la disintegra completamente, annunciando il vangelo dell’infinito amore di Dio.
A questo punto nasce spontanea la domanda: se il perdono non è naturale, perché sono invitato a perdonare, come posso trovare la forza per perdonare davvero chi mi fa del male? La risposta è semplice: io sono capace di perdonare solo se mi riconosco perdonato, perché Dio ogni momento mi perdona per darmi la possibilità di ricominciare una vita nuova.
La nuova traduzione del “Padre nostro”, la preghiera che ogni giorno il cristiano è chiamato a far sua, ha reso ancor più forte con quelle parole “come anche noi” che la nostra richiesta di essere perdonati da Dio è legata a doppio filo al nostro impegno di perdonare tutti coloro che sono “nostri debitori” in un libero scambio d’amore gratuito, diventando in questo modo testimoni coerenti dell’amore di Dio e strumenti efficaci del suo perdono.
Ecco allora il senso della parabola di oggi: un servo doveva al suo re diecimila talenti, cifra iperbolica, impossibile da restituire corrispondente a 589 tonnellate di oro pari a poco più di 33 miliardi e mezzo di euro. Al tempo di Gesù il mancato rispetto del debito prevedeva la riduzione in schiavitù del debitore nei confronti del creditore o l’incarcerazione: ecco il senso della supplica del servo che chiedeva tempo per poter restituire quanto dovuto. Era un’ultima disperata carta da giocarsi a fronte di un debito impossibile da saldare: affidarsi alla compassione del padrone.
Colpo di scena: di fronte a quell’uomo prostrato e supplicante il cuore del re è toccato dalla compassione e decide di condonare quell’immenso debito per restituire in pienezza la libertà a quel servo. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare.
Ora quell’uomo liberato dal peso dell’enorme debito che aveva, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, che gli era debitore di 100 denari (€ 5500 circa) e chiede la restituzione del debito. Questo servo, che alcuni versetti dopo viene definito malvagio, non commette nessun crimine, non esige nulla che non sia nel suo diritto, vuole solo essere pagato per quanto gli è dovuto: è giusto e al tempo stesso spietato, è onesto ed insieme crudele, ma questa è la giustizia (umana): “dare a ciascuno il suo”.
Sono tremende quelle parole: “appena uscito”, non una settimana dopo o il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito” a significare come quel servo, ecco perché malvagio, non avesse per nulla capito l’immenso dono di cui era stato oggetto e non aveva saputo cogliere la gioia del perdono per poterla condividere con quel suo compagno che gli doveva 100 denari. Anche per noi oggi come per quel servo si apre un’alternativa: o avere il cuore di Dio capace di compassione e comprensione o mantenere il nostro cuore chiuso nell’odio, cieco di fronte ai fratelli.
Di fronte a questa linea dell’equilibrio economico tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura; allora il perdono, per chi vuole essere discepolo di Cristo, non è un istinto ma una precisa volontà, una decisione ferma e consapevole! Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito: quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, invece di liberare dal debito chiudo mio fratello nel suo peccato; quando penso di curare una ferita ferendo a mia volta, non faccio altro che procurare una seconda ferita sanguinante.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare l’altro dai tentacoli del male, significa credere nell’altro, significa guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato che si dimentica del male, ma come un liberatore che da quel male ci salva!
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Perdono o vendetta? Di fronte al male che riceviamo o ad un torto subito, come ci poniamo? Per quanto mi riguarda la reazione immediata, quella che mi viene spontanea, non è certamente il perdono, ma il risentimento, il rancore, soprattutto quando la ferita che mi è stata inferta ha lasciato segni profondi che durano nel tempo: è naturale pensare, quindi, alla vendetta come restituzione del dolore che ci è stato provocato. Alcuni possono ritenere come Nietzche che chi perdona sia un debole, un incapace, un inetto nel far valere i propri diritti, altri come Freud possono pensare che il perdono sia una pretesa assurda e incomprensibile, dannosa per la salute psichica dell’individuo; ora la proposta cristiana va esattamente in senso contrario.
Gesù ha appena insegnato ai discepoli la via per “guadagnare” un fratello quando questi commettono del male nei loro confronti; è una strada lastricata d’amore fraterno fatta di tentativi ripetuti e costanti per tentare di salvare l’altro, per riportarlo su un percorso di vita, di gioia di felicità; è una strada segnata dall’unica medicina possibile di fronte al peccato la misericordia, ovvero quell’amore viscerale, materno per il quale ogni peccatore può ritrovare la strada giusta per riprendere il cammino verso il Signore. Mancava un ultimo ingrediente, il perdono, olio lenitivo di ogni male, capace di rigenerare in ogni fratello e sorella una vita nuova perché segno estremo e più alto dell’amore.
Pietro rimane sconcertato dalla proposta di Gesù e prova a dare una misura al perdono e all’amore, forse per rendersi conto di quanto ne fosse capace: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Al tempo di Gesù qualche rabbino, tra quelli più aperti ed illuminati, proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia e Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, prova ad esagerare, vuole spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì, sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione, quindi un perdono vero che partiva dal cuore e non limitato da una norma di tipo legale; Pietro, quindi, si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve.
La risposta di Gesù va ben oltre a ciò che già spaventava Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Gesù riprende le tremende parole di Lamec, figlio di Caino, per indicare la sua illimitata voglia di vendetta, ma ne rovescia il senso non ponendo limiti al perdono e dando a questo un orizzonte infinito. Sì, perché l’amore come il perdono non possono entrare in una logica economicistica per cui come l’unica misura dell’amore è amare senza misura, così l’unica misura del perdono è perdonare senza misura: si ama e si perdona in modo illimitato e infinito oppure non si ama, né si perdona! Gesù non alza l’asticella della morale, ma la elimina, la disintegra completamente, annunciando il vangelo dell’infinito amore di Dio.
A questo punto nasce spontanea la domanda: se il perdono non è naturale, perché sono invitato a perdonare, come posso trovare la forza per perdonare davvero chi mi fa del male? La risposta è semplice: io sono capace di perdonare solo se mi riconosco perdonato, perché Dio ogni momento mi perdona per darmi la possibilità di ricominciare una vita nuova.
La nuova traduzione del “Padre nostro”, la preghiera che ogni giorno il cristiano è chiamato a far sua, ha reso ancor più forte con quelle parole “come anche noi” che la nostra richiesta di essere perdonati da Dio è legata a doppio filo al nostro impegno di perdonare tutti coloro che sono “nostri debitori” in un libero scambio d’amore gratuito, diventando in questo modo testimoni coerenti dell’amore di Dio e strumenti efficaci del suo perdono.
Ecco allora il senso della parabola di oggi: un servo doveva al suo re diecimila talenti, cifra iperbolica, impossibile da restituire corrispondente a 589 tonnellate di oro pari a poco più di 33 miliardi e mezzo di euro. Al tempo di Gesù il mancato rispetto del debito prevedeva la riduzione in schiavitù del debitore nei confronti del creditore o l’incarcerazione: ecco il senso della supplica del servo che chiedeva tempo per poter restituire quanto dovuto. Era un’ultima disperata carta da giocarsi a fronte di un debito impossibile da saldare: affidarsi alla compassione del padrone.
Colpo di scena: di fronte a quell’uomo prostrato e supplicante il cuore del re è toccato dalla compassione e decide di condonare quell’immenso debito per restituire in pienezza la libertà a quel servo. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare.
Ora quell’uomo liberato dal peso dell’enorme debito che aveva, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, che gli era debitore di 100 denari (€ 5500 circa) e chiede la restituzione del debito. Questo servo, che alcuni versetti dopo viene definito malvagio, non commette nessun crimine, non esige nulla che non sia nel suo diritto, vuole solo essere pagato per quanto gli è dovuto: è giusto e al tempo stesso spietato, è onesto ed insieme crudele, ma questa è la giustizia (umana): “dare a ciascuno il suo”.
Sono tremende quelle parole: “appena uscito”, non una settimana dopo o il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito” a significare come quel servo, ecco perché malvagio, non avesse per nulla capito l’immenso dono di cui era stato oggetto e non aveva saputo cogliere la gioia del perdono per poterla condividere con quel suo compagno che gli doveva 100 denari. Anche per noi oggi come per quel servo si apre un’alternativa: o avere il cuore di Dio capace di compassione e comprensione o mantenere il nostro cuore chiuso nell’odio, cieco di fronte ai fratelli.
Di fronte a questa linea dell’equilibrio economico tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura; allora il perdono, per chi vuole essere discepolo di Cristo, non è un istinto ma una precisa volontà, una decisione ferma e consapevole! Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito: quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, invece di liberare dal debito chiudo mio fratello nel suo peccato; quando penso di curare una ferita ferendo a mia volta, non faccio altro che procurare una seconda ferita sanguinante.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare l’altro dai tentacoli del male, significa credere nell’altro, significa guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato che si dimentica del male, ma come un liberatore che da quel male ci salva!
Commento 13 settembre 2020
Di fronte al male che riceviamo o ad un torto subito la reazione immediata, quella che ci viene spontanea non è certamente il perdono, ma il risentimento, il rancore soprattutto quando la ferita che ci è stata inferta ha lasciato segni profondi che durano nel tempo: è naturale pensare quindi alla vendetta come restituzione del dolore che ci è stato provocato. Per Nietzche chi perdona è un debole, un incapace di far valere i propri diritti, mentre Freud riteneva il perdono una pretesa assurda e incomprensibile, dannosa per la salute psichica dell’individuo; la proposta cristiana va esattamente all’opposto.
Gesù ha appena finito di indicare la strada ai suoi discepoli su come comportarsi di fronte a coloro che commettono del male nei loro confronti. È una strada lastricata d’amore fraterno fatta di tentativi ripetuti e costanti per tentare di salvare l’altro, per riportarlo su un percorso di vita, di gioia di felicità; è una strada segnata dall’unica medicina possibile di fronte al peccato la misericordia, ovvero quell’amore viscerale, materno per il quale “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja”. È un percorso che si conclude con il perdono, olio lenitivo di ogni male, rigenerante di ogni vita nuova e segno estremo e più alto dell’amore.
Pietro ne rimase sconcertato, provando a dare una misura al perdono e all’amore: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Al tempo di Gesù qualche rabbino, tra quelli più aperti ed illuminati proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia. Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, vuole esagerare, spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì, sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione, quindi un perdono vero che partiva dal cuore e non limitato da una norma di tipo legale. Pietro quindi si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve.
La risposta di Gesù va ben oltre a ciò che già spaventava Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Gesù riprende le tremende parole di Lamec, figlio di Caino, per indicare la sua illimitata voglia di vendetta, ma ne rovescia il senso non ponendo limiti al perdono e dando a questo un orizzonte infinito. Sì, perché l’amore come il perdono non possono entrare in una logica economicistica per cui l’unica misura dell’amore, così come l’unica misura del perdono è amare, perdonare senza misura: si ama e si perdona in modo illimitato e infinito oppure non si ama, né si perdona! Gesù non alza l’asticella della morale, ma la elimina annunciando il vangelo dell’infinito amore di Dio.
A questo punto nasce spontanea la domanda: se il perdono non è naturale, perché sono invitato a perdonare, come posso trovare la forza per perdonare davvero chi mi fa del male? La risposta è semplice: perché io sono un perdonato, perché Dio ogni momento mi perdona per darmi la possibilità di ricominciare una vita nuova. Ogni giorno come cristiani siamo invitati a pregare il Padre che è nei cieli, chiedendo che ci siano rimessi i nostri debiti, promettendo in un libero scambio d’amore gratuito di perdonare tutti coloro che sono “nostri debitori”, diventando in questo modo testimoni coerenti dell’amore di Dio e strumenti efficaci del suo perdono. Ecco allora il senso della parabola di oggi: un servo doveva al suo re diecimila talenti, era questa una cifra iperbolica, impossibile da restituire corrispondente a 589 tonnellate di oro pari a poco meno di 33 miliardi di euro. Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre, ma ecco la sorpresa: di fronte alla supplica del servo che chiedeva tempo per restituire il debito, la compassione del padrone che quell’immenso debito lo condona per restituire in pienezza la libertà a quel servo. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare. Anche per noi oggi come per quel servo si apre un’alternativa: o avere il cuore di Dio capace di compassione e comprensione o mantenere il nostro cuore chiuso nell’odio, cieco di fronte ai fratelli come quel debitore condonato che, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, ma a cui non ha saputo condonare il debito.
Tremende quelle parole: “appena uscito”, non una settimana dopo o il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito” quel servo non sa cogliere l’immensa gioia del perdono e non sa condividerla con quel suo fratello che gli deve 100 denari (€ 5500 circa). Eppure questo servo malvagio non esige nulla che non sia nel suo diritto: vuole essere pagato; è giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele, ma questa è la giustizia (umana): “dare a ciascuno il suo”.
Di fronte a questa linea dell’equilibrio economico tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura; allora il perdono non è un istinto ma una precisa volontà, una decisione! Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito: quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, invece di liberare dal debito chiudo mio fratello nel suo peccato; quando penso di curare una ferita ferendo a mia volta, non faccio altro che procurare una seconda ferita sanguinante.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare l’altro dai tentacoli del male, significa credere nell’altro, significa guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato che si dimentica il male, ma come un liberatore che da quel male ci salva!
Gesù ha appena finito di indicare la strada ai suoi discepoli su come comportarsi di fronte a coloro che commettono del male nei loro confronti. È una strada lastricata d’amore fraterno fatta di tentativi ripetuti e costanti per tentare di salvare l’altro, per riportarlo su un percorso di vita, di gioia di felicità; è una strada segnata dall’unica medicina possibile di fronte al peccato la misericordia, ovvero quell’amore viscerale, materno per il quale “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja”. È un percorso che si conclude con il perdono, olio lenitivo di ogni male, rigenerante di ogni vita nuova e segno estremo e più alto dell’amore.
Pietro ne rimase sconcertato, provando a dare una misura al perdono e all’amore: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Al tempo di Gesù qualche rabbino, tra quelli più aperti ed illuminati proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia. Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, vuole esagerare, spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì, sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione, quindi un perdono vero che partiva dal cuore e non limitato da una norma di tipo legale. Pietro quindi si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve.
La risposta di Gesù va ben oltre a ciò che già spaventava Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Gesù riprende le tremende parole di Lamec, figlio di Caino, per indicare la sua illimitata voglia di vendetta, ma ne rovescia il senso non ponendo limiti al perdono e dando a questo un orizzonte infinito. Sì, perché l’amore come il perdono non possono entrare in una logica economicistica per cui l’unica misura dell’amore, così come l’unica misura del perdono è amare, perdonare senza misura: si ama e si perdona in modo illimitato e infinito oppure non si ama, né si perdona! Gesù non alza l’asticella della morale, ma la elimina annunciando il vangelo dell’infinito amore di Dio.
A questo punto nasce spontanea la domanda: se il perdono non è naturale, perché sono invitato a perdonare, come posso trovare la forza per perdonare davvero chi mi fa del male? La risposta è semplice: perché io sono un perdonato, perché Dio ogni momento mi perdona per darmi la possibilità di ricominciare una vita nuova. Ogni giorno come cristiani siamo invitati a pregare il Padre che è nei cieli, chiedendo che ci siano rimessi i nostri debiti, promettendo in un libero scambio d’amore gratuito di perdonare tutti coloro che sono “nostri debitori”, diventando in questo modo testimoni coerenti dell’amore di Dio e strumenti efficaci del suo perdono. Ecco allora il senso della parabola di oggi: un servo doveva al suo re diecimila talenti, era questa una cifra iperbolica, impossibile da restituire corrispondente a 589 tonnellate di oro pari a poco meno di 33 miliardi di euro. Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre, ma ecco la sorpresa: di fronte alla supplica del servo che chiedeva tempo per restituire il debito, la compassione del padrone che quell’immenso debito lo condona per restituire in pienezza la libertà a quel servo. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare. Anche per noi oggi come per quel servo si apre un’alternativa: o avere il cuore di Dio capace di compassione e comprensione o mantenere il nostro cuore chiuso nell’odio, cieco di fronte ai fratelli come quel debitore condonato che, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, ma a cui non ha saputo condonare il debito.
Tremende quelle parole: “appena uscito”, non una settimana dopo o il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito” quel servo non sa cogliere l’immensa gioia del perdono e non sa condividerla con quel suo fratello che gli deve 100 denari (€ 5500 circa). Eppure questo servo malvagio non esige nulla che non sia nel suo diritto: vuole essere pagato; è giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele, ma questa è la giustizia (umana): “dare a ciascuno il suo”.
Di fronte a questa linea dell’equilibrio economico tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura; allora il perdono non è un istinto ma una precisa volontà, una decisione! Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito: quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, invece di liberare dal debito chiudo mio fratello nel suo peccato; quando penso di curare una ferita ferendo a mia volta, non faccio altro che procurare una seconda ferita sanguinante.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare l’altro dai tentacoli del male, significa credere nell’altro, significa guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato che si dimentica il male, ma come un liberatore che da quel male ci salva!
Commento 17 settembre 2017
Credo che per cogliere in profondità il senso della buona notizia che oggi ci viene proposta sia necessario rimanere all’interno di quel senso di fraternità universale che già domenica scorsa ci veniva proposto. Chi non sente questa fraternità è inutile che si accosti al vangelo di oggi poiché il cuore del messaggio sta nella domanda di Pietro: “se il mio fratello...?”
Solo l’amore fraterno può infatti spingere un uomo ad amare il prossimo volendo aiutarlo ad essere migliore e più felice (vangelo di domenica scorsa), ma sapendo accogliere comunque colui che commette qualche colpa con la forza trasformante del perdono.
Nella Bibbia riguardo al tema del perdono Dio propone un lungo percorso all’uomo, partendo dal grido orribile di Lamech, figlio di Caino, che minaccia di uccidere settanta volte sette per uno screzio (Gn 4) per giungere alla proposta di Gesù che chiede di perdonare settanta volte sette. Già un primo passo si ha con la proposta di quella che è conosciuta come la legge del taglione (Dt 19,21), la quale, attenzione, non giustifica la vendetta, ma pone un freno alla rabbia, introducendo un criterio di proporzionalità: occhio per occhio, dente per dente. Ancora nel Pentateuco già troviamo qualche accenno alla misericordia, sempre però limitata agli ebrei, fratelli nella fede. Al tempo di Gesù qualche rabbino proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia e Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, vuole esagerare, spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione: Pietro quindi si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve. E tutto questo non basta: la proposta di Gesù va oltre: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette!” cioè sempre perché l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Dio non fa forse così?
Perché perdonare? E come si fa a perdonare? La risposta sta nella parabola che segue: siamo chiamati a perdonare perché Dio ci perdona e riusciremo a perdonare nella misura in cui sapremo cogliere la bellezza e la gioia nel perdono che ogni giorno riceviamo da Dio.
Un uomo aveva contratto col suo re un debito enorme, assurdo, una cifra inimmaginabile (€12780000000 leggasi dodicimiliardi settecentoottantamilioni di euro al cambio di oggi sabato 16 settembre 2017), quasi una finanziaria! Il re, di fronte alla preghiera di quel suo servo, prova compassione e condona il debito. Il re non è certamente un campione del diritto, ma della compassione, sente come suo il dolore del servo, e sente che questo conta più dei suoi diritti e sarà fonte di un rapporto nuovo d’amore; il dolore del servo e il successivo amore pesano più dell’oro. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare.
Anche per noi subito si apre l’alternativa: o acquisire un cuore regale capace di compassione e comprensione o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, ma a cui non ha saputo condonare il debito.
“Appena uscito”: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito”, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia; “appena uscito” non sa cogliere quell’immensa gioia del perdono e non sa condividerla con quel suo fratello che gli deve 100 denari (€ 2130 circa). Eppure, questo servo malvagio non esige nulla che non sia suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele, ma giustizia umana è “dare a ciascuno il suo”. Di fronte a questa linea dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell'eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura. Il perdono non è un istinto ma una decisione!
Allora perdoniamo come riusciamo, al meglio delle nostre capacità e delle nostre forze, perdoniamo perché siamo perdonati, perché il perdono ci rende straordinariamente liberi. Quando non voglio perdonare, quando di fronte a un’offesa riscuoto il mio debito offendendo il fratello, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, significa credere nell’altro, guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che supera ogni nostra logica.
Solo l’amore fraterno può infatti spingere un uomo ad amare il prossimo volendo aiutarlo ad essere migliore e più felice (vangelo di domenica scorsa), ma sapendo accogliere comunque colui che commette qualche colpa con la forza trasformante del perdono.
Nella Bibbia riguardo al tema del perdono Dio propone un lungo percorso all’uomo, partendo dal grido orribile di Lamech, figlio di Caino, che minaccia di uccidere settanta volte sette per uno screzio (Gn 4) per giungere alla proposta di Gesù che chiede di perdonare settanta volte sette. Già un primo passo si ha con la proposta di quella che è conosciuta come la legge del taglione (Dt 19,21), la quale, attenzione, non giustifica la vendetta, ma pone un freno alla rabbia, introducendo un criterio di proporzionalità: occhio per occhio, dente per dente. Ancora nel Pentateuco già troviamo qualche accenno alla misericordia, sempre però limitata agli ebrei, fratelli nella fede. Al tempo di Gesù qualche rabbino proponeva di perdonare fino a tre volte un torto subito per manifestare clemenza e misericordia e Pietro, che aveva capito benissimo la radicalità del messaggio di Gesù, vuole esagerare, spingersi oltre e si propone di perdonare non tre, ma sette volte. Sì sette, più del doppio e soprattutto usando un numero particolare, che, nel comune sentire del popolo ebraico, indicava la perfezione: Pietro quindi si impegna di fronte a Gesù a perdonare molto più di quanto richiedevano i maestri del tempo e soprattutto a rendere il suo perdono completo e senza riserve. E tutto questo non basta: la proposta di Gesù va oltre: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette!” cioè sempre perché l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Dio non fa forse così?
Perché perdonare? E come si fa a perdonare? La risposta sta nella parabola che segue: siamo chiamati a perdonare perché Dio ci perdona e riusciremo a perdonare nella misura in cui sapremo cogliere la bellezza e la gioia nel perdono che ogni giorno riceviamo da Dio.
Un uomo aveva contratto col suo re un debito enorme, assurdo, una cifra inimmaginabile (€12780000000 leggasi dodicimiliardi settecentoottantamilioni di euro al cambio di oggi sabato 16 settembre 2017), quasi una finanziaria! Il re, di fronte alla preghiera di quel suo servo, prova compassione e condona il debito. Il re non è certamente un campione del diritto, ma della compassione, sente come suo il dolore del servo, e sente che questo conta più dei suoi diritti e sarà fonte di un rapporto nuovo d’amore; il dolore del servo e il successivo amore pesano più dell’oro. Il re ha capito che nessuna ricchezza potrà mai sostituire il rapporto con quel suo servo, poiché l’amore non ha prezzo e per nessuna cifra lo si potrà comprare.
Anche per noi subito si apre l’alternativa: o acquisire un cuore regale capace di compassione e comprensione o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, “appena uscito”, trovò un servo come lui, un suo compagno ed amico, un fratello, ma a cui non ha saputo condonare il debito.
“Appena uscito”: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito”, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia; “appena uscito” non sa cogliere quell’immensa gioia del perdono e non sa condividerla con quel suo fratello che gli deve 100 denari (€ 2130 circa). Eppure, questo servo malvagio non esige nulla che non sia suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele, ma giustizia umana è “dare a ciascuno il suo”. Di fronte a questa linea dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell'eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura. Il perdono non è un istinto ma una decisione!
Allora perdoniamo come riusciamo, al meglio delle nostre capacità e delle nostre forze, perdoniamo perché siamo perdonati, perché il perdono ci rende straordinariamente liberi. Quando non voglio perdonare, quando di fronte a un’offesa riscuoto il mio debito offendendo il fratello, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza.
Perdonare, invece, significa sciogliere quel nodo che si è creato nel nostro rapporto, significa liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, significa credere nell’altro, guardare non al suo passato, al suo errore, ma al suo futuro, alla sua possibilità di convertirsi, di cambiare. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che supera ogni nostra logica.