XXIII domenica T.O. Anno A
Vangelo Mt 18, 15-20
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Commento 10 settembre 2023
“Libertà, uguaglianza, fraternità”: così recita il motto della rivoluzione francese, quella rivoluzione che ha disintegrato l’idea di un potere assoluto, fondato troppo spesso su un’idea teocratica dello stesso per rimetterlo nelle mani di un popolo consapevole. Da allora i tentativi di sviluppare una teoria politica hanno seguito una strada di destra, che privilegiava la libertà personale in una valorizzazione dei meriti dei singoli a scapito di coloro che erano in maggiori difficoltà, oppure di sinistra, che tentava di costruire una uguaglianza dei diritti troppe volte tarpando le ali ai meritevoli. Mai nessuno ha pensato che vi era una terza via, una possibilità ancora inesplorata, quella di una fraternità radicale, di un genere umano che si sentisse “famiglia”; solo papa Francesco nell’enciclica “Fratres Omnes” ha avuto il coraggio di ricordare a tutti che questa è la via da percorrere perché il mondo diventi per davvero un luogo meraviglioso in cui vivere.
Con il peccato di Adamo si incrinò il rapporto armonioso tra Dio e l’umanità, simboleggiato dall’allontanamento dell’uomo dal paradiso terrestre; ora perdere questo riferimento significava anche perdere quel senso di fraternità che lega ogni uomo: se dimentico, infatti, di avere un unico Padre, è chiaro che non posso riconoscere in alcun modo l’altro come un fratello.
“Sono forse io il custode di mio fratello?”: con queste parole Caino risponde a Dio che gli chiede conto di Abele, suo fratello; forse ancor più dell’omicidio quelle parole erano il segno di un rapporto di fraternità che si era definitivamente rotto.
Di qui la necessità per ripristinare un corretto rapporto con Dio, di tornare a riconoscere ogni uomo e donna come mio fratello e sorella: è proprio questo che il discepolo di Cristo è chiamato a fare ogni volta che inizia a pregare secondo quanto ci ha insegnato Gesù. Dire “Padre nostro” infatti altro non è che riconoscere Dio Padre/Madre, capace di generare in noi la vita con il suo amore, e di riconoscerlo come “nostro”, cioè di tutti e di conseguenza vivere tra noi un legame di fraternità universale. Questa è la “rivoluzione della tenerezza” che siamo chiamati a portare avanti!
Questo rapporto fraterno è da vivere innanzitutto all’interno della Chiesa ma non come rapporto esclusivo, bensì come esperimento, allenamento di un rapporto che deve allargarsi fino a diventare universale verso ogni uomo per essere vero e pieno; proprio per questo ogni atteggiamento di razzismo o di esclusione verso l’altro perché diverso è una contraddizione irriducibile con il proprio dichiararsi cristiano.
Nel discorso di Mt 18 Gesù parla di “fratello” e sebbene questa parola abbia una valenza universale è chiaro che Gesù si rivolge in primo luogo a chi questo rapporto di fraternità tenta di viverlo nella Chiesa e quindi a tutti coloro che si riconoscono suoi discepoli.
Gesù oggi parla di peccato o meglio di colpa commessa da un fratello contro di noi: il peccato, il male commesso ci colpisce sempre, ma diventa particolarmente odioso se questo è commesso da chi ha scelto di seguire Gesù. Bisogna fare una premessa poiché credo che molti di noi abbiano una concezione errata di peccato tanto che quando viene annunciata la misericordia di Dio capace di perdonare nel suo infinito amore ogni peccato, tanti cristiani rimangono interdetti e forse in qualcuno spunta anche una certa invidia verso chi nella vita se l’è goduta ed alla fine ottiene il perdono ed entra in paradiso. Troppe volte intendiamo il peccato in senso legalistico come una mancanza rispetto alla legge di Dio, una rottura del rapporto e quindi come una offesa a Dio. È bene ricordare che il peccato non è una offesa a Dio, non gli fa male (Gb 35,6: “Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi?”), l’unica conseguenza del peccato è il rendere meno umano l’uomo, allontanandolo dall’originale progetto d’amore di Dio per lui. Peccare, lo esprime bene il termine ebraico, è fallire il bersaglio, mancare il centro: l’uomo è fatto per la gioia, Dio gli ha messo in cuore questa pulsione verso la felicità alla quale ciascuno di noi deve rispondere, allora il peccato è quando cerco la gioia per cammini sbagliati, agganciando la mia vita a valori vuoti, effimeri che lasceranno in bocca solo l’amaro senso di aver buttato l’opportunità di essere veramente felice.
Di fronte al nostro peccato non troviamo un Dio meschino offeso, pronto ad infliggere castighi chi ha sbagliato per ottenere giustizia, ma un Dio che soffre dispiaciuto come una madre, un padre che vedono il proprio figlio buttare via la vita, un Dio che attende dalla finestra del suo cuore il ritorno del figlio tanto amato (cfr. Lc 15,11-32).
Se il peccato è la ricerca della felicità su sentieri sbagliati, il perdono di Dio è quella sua azione che ci vuole riportare sulla strada giusta di una vita piena, realizzata nella gioia e nell’amore perché ciò che Dio vuole è “che neanche uno di questi piccoli si perda” (Mt 18,14, versetto che precede immediatamente l’inizio del vangelo di oggi): questa salvezza non sta in un futuro escatologico, lontano nel tempo e nello spazio, nel paradiso, ma è la felicità dell’uomo qui ed oggi!
Ora, se riconosci nell’altro un fratello e vedi che questo tuo fratello è caduto nel peccato, il primo passo è il richiamare l’altro per “convincerlo” e riportarlo nella strada giusta perché chi ama non può lasciare che l’amato si perda per strade sbagliate e non realizzi la sua gioia. È un richiamo fatto a tu per tu perché il peccato rimanga nel segreto e perché nel dialogo personale si possa aiutare meglio il fratello a capire l’errore.
Il secondo passo per riportare il fratello sul sentiero della vita è l’intervento con alcuni altri fratelli che possano aiutare il peccatore a capire con altre parole, ma soprattutto facendolo sentire accolto all’interno di una comunità che lo ama.
Un terzo, ulteriore passo è portare tutto di fronte a tutta la comunità perché il peccato, ripeto il peccato e non il peccatore, venga condannato pubblicamente e non si crei scandalo verso i più piccoli e semplici.
Ma non è finita qui! La conclusione non va travisata ed è una meraviglia di Dio: se anche di fronte alla comunità tutta intera il peccatore non ascolterà, “sia per te come il pagano e il pubblicano”! Interpretare questo versetto come l’invito a lasciar andar via o meglio a scacciare il peccatore relegandolo nella nostra condanna indifferente è sbagliato, perché Gesù chiede di considerare colui che non ha ascoltato il richiamo della comunità alla stregua di un pubblicano e di un pagano, ma Gesù stesso si è presentato come l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Come discepoli di Cristo dobbiamo fare come il maestro: considerare il fratello che ha peccato come un pubblicano vuol dire considerare quella persona come estremamente bisognosa del nostro amore, che deve diventare segno inequivocabile e concreto dell’amore di Dio; in secondo luogo considerare quel peccatore come un pagano, a mio parere, vuol dire che io sono chiamato ad annunciargli e testimoniargli ancor più decisamente e concretamente il vangelo, la buona notizia che anche lui è amato con infinita tenerezza da Dio e che io sono pronto a vivere insieme a lui un’esperienza di fraternità, perché solo “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
Come discepoli di Cristo dobbiamo sostituire all’indifferenza omicida di Caino, la responsabilità amorevole della correzione fraterna perché, come suoi angeli, Dio ci ha fatto custodi della vita e della felicità di ogni fratello e sorella!
Commento 5 settembre 2020
La prima conseguenza del peccato originale fu la rottura di quel rapporto armonioso tra Dio e l’umanità simboleggiato dall’allontanamento dal paradiso terrestre. Ora perdere questo riferimento significava anche perdere quel senso di fraternità che lega ogni uomo: se dimentico di avere un unico Padre, è chiaro che non posso riconoscere in alcun modo l’altro come un fratello.
“Sono forse io il custode di mio fratello?”: con queste parole Caino risponde a Dio che gli chiede conto di Abele, suo fratello; forse ancor più dell’omicidio quelle parole erano il segno di un rapporto di fraternità che si era definitivamente rotto.
Di qui la necessità per ripristinare un corretto rapporto con Dio, di tornare a riconoscere ogni uomo e donna come mio fratello e sorella: è proprio questo che il discepolo di Cristo è chiamato a fare ogni volta che inizia a pregare secondo quanto ci ha insegnato Gesù. Dire “Padre nostro” infatti altro non è che riconoscere Dio Padre/Madre, capace di generare in noi la vita con il suo amore, e di riconoscerlo come “nostro”, cioè di tutti e di conseguenza vivere tra noi un legame di fraternità universale.
Questo rapporto fraterno è da vivere innanzitutto all’interno della Chiesa ma non come rapporto esclusivo, bensì come esperimento, allenamento di un rapporto che deve allargarsi fino a diventare universale verso ogni uomo per essere vero e pieno; proprio per questo ogni atteggiamento di razzismo o di esclusione verso l’altro perché diverso è una contraddizione irriducibile con il proprio dichiararsi cristiano.
Nel discorso di Mt 18 Gesù parla di “fratello” e sebbene questa parola abbia una valenza universale è chiaro che Gesù si rivolge in primo luogo a chi questo rapporto di fraternità tenta di viverlo e quindi a tutti coloro che si riconoscono suoi discepoli.
Gesù oggi parla di peccato o meglio di colpa commessa da un fratello contro di noi: il peccato, il male commesso ci colpisce sempre, ma diventa particolarmente odioso se questo è commesso da chi ha scelto di seguire Gesù. Bisogna fare una premessa poiché credo che molti di noi abbiano una concezione errata di peccato tanto che quando viene annunciata la misericordia di Dio capace di perdonare nel suo infinito amore ogni peccato, tanti cristiani rimangono interdetti e forse in qualcuno spunta anche una certa invidia verso chi nella vita se l’è goduta ed alla fine ottiene il perdono ed entra in paradiso. Troppe volte intendiamo il peccato in senso legalistico come una mancanza rispetto alla legge di Dio, una rottura del rapporto e quindi come una offesa a Dio. È bene ricordare che il peccato non è una offesa a Dio, non gli fa male (Gb 35,6: “Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi?”), l’unica conseguenza del peccato è che disumanizza l’uomo, allontanandolo dall’originale progetto d’amore di Dio per lui. Peccare, lo esprime bene il termine ebraico, è fallire il bersaglio, mancare il centro: l’uomo è fatto per la gioia, Dio gli ha messo in cuore questa pulsione verso la felicità alla quale ciascuno di noi deve rispondere, allora il peccato è quando cerco la gioia per cammini sbagliati, agganciando la mia vita a valori vuoti, effimeri che lasceranno in bocca solo l’amaro senso di aver buttato l’opportunità di essere veramente felice. Di fronte al nostro peccato non troviamo un Dio meschino offeso dalla sua creatura preferita, pronto ad infliggere castighi per ottenere giustizia, ma un Dio che soffre dispiaciuto come una madre, un padre che vedono il proprio figlio buttare via la vita ed attende dalla finestra del suo cuore il ritorno del figlio tanto amato (cfr. Lc 15,11-32).
Se questo è il peccato, il perdono di Dio è quella sua azione che ci vuole riportare sulla strada giusta di una vita piena, realizzata nella gioia e nell’amore perché ciò che Dio vuole è “che neanche uno di questi piccoli si perda” (Mt 18,14, versetto che precede immediatamente l’inizio del vangelo di oggi): questa salvezza non sta in un futuro escatologico, lontano nel tempo e nello spazio, nel paradiso, ma è la felicità dell’uomo qui ed oggi!
Ora, se riconosci nell’altro un fratello e vedi che questo tuo fratello è caduto nel peccato, il primo passo è il richiamare l’altro per “convincerlo” e riportarlo nella strada giusta perché chi ama non può lasciare che l’amato si perda per strade sbagliate, non realizzi la sua gioia. È un richiamo fatto a tu per tu perché il peccato rimanga nel segreto e perché nel dialogo personale si possa aiutare meglio il fratello a capire l’errore.
Il secondo passo è l’intervento con alcuni altri fratelli che possano aiutare il peccatore a capire con altre parole, ma soprattutto facendolo sentire all’interno di una comunità che lo accoglie e lo ama.
Un ulteriore passo è portare tutto di fronte a tutta la comunità perché il peccato, ripeto il peccato e non il peccatore, venga condannato pubblicamente e non si crei scandalo verso i più piccoli e semplici.
Ma non è finita qui e la conclusione non va travisata ed è una meraviglia di Dio: se anche di fronte alla comunità tutta intera il peccatore non ascolterà, “sia per te come il pagano e il pubblicano”! Interpretare questo versetto come l’invito a lasciar andar via o meglio a scacciare il peccatore relegandolo nella nostra condanna indifferente è sbagliato. Gesù chiede di considerare colui che non ha ascoltato il richiamo della comunità alla stregua di un pubblicano e di un pagano, ma Gesù stesso si è presentato come l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Come discepoli di Cristo dobbiamo fare come il maestro: considerare il fratello che ha peccato come un pubblicano vuol dire considerare quella persona come estremamente bisognosa del nostro amore, segno concreto dell’amore di Dio; in secondo luogo considerare quel peccatore come un pagano, a mio parere, vuol dire che io sono chiamato ad annunciargli e testimoniargli concretamente il vangelo, la buona notizia che anche lui è amato con infinita tenerezza da Dio e che io sono pronto a vivere insieme a lui un’esperienza di fraternità.
Sostituiamo all’indifferenza omicida di Caino, la responsabilità amorevole della correzione fraterna perché, come suoi angeli, Dio ci ha fatto custodi della vita e della felicità di ogni fratello e sorella!
“Sono forse io il custode di mio fratello?”: con queste parole Caino risponde a Dio che gli chiede conto di Abele, suo fratello; forse ancor più dell’omicidio quelle parole erano il segno di un rapporto di fraternità che si era definitivamente rotto.
Di qui la necessità per ripristinare un corretto rapporto con Dio, di tornare a riconoscere ogni uomo e donna come mio fratello e sorella: è proprio questo che il discepolo di Cristo è chiamato a fare ogni volta che inizia a pregare secondo quanto ci ha insegnato Gesù. Dire “Padre nostro” infatti altro non è che riconoscere Dio Padre/Madre, capace di generare in noi la vita con il suo amore, e di riconoscerlo come “nostro”, cioè di tutti e di conseguenza vivere tra noi un legame di fraternità universale.
Questo rapporto fraterno è da vivere innanzitutto all’interno della Chiesa ma non come rapporto esclusivo, bensì come esperimento, allenamento di un rapporto che deve allargarsi fino a diventare universale verso ogni uomo per essere vero e pieno; proprio per questo ogni atteggiamento di razzismo o di esclusione verso l’altro perché diverso è una contraddizione irriducibile con il proprio dichiararsi cristiano.
Nel discorso di Mt 18 Gesù parla di “fratello” e sebbene questa parola abbia una valenza universale è chiaro che Gesù si rivolge in primo luogo a chi questo rapporto di fraternità tenta di viverlo e quindi a tutti coloro che si riconoscono suoi discepoli.
Gesù oggi parla di peccato o meglio di colpa commessa da un fratello contro di noi: il peccato, il male commesso ci colpisce sempre, ma diventa particolarmente odioso se questo è commesso da chi ha scelto di seguire Gesù. Bisogna fare una premessa poiché credo che molti di noi abbiano una concezione errata di peccato tanto che quando viene annunciata la misericordia di Dio capace di perdonare nel suo infinito amore ogni peccato, tanti cristiani rimangono interdetti e forse in qualcuno spunta anche una certa invidia verso chi nella vita se l’è goduta ed alla fine ottiene il perdono ed entra in paradiso. Troppe volte intendiamo il peccato in senso legalistico come una mancanza rispetto alla legge di Dio, una rottura del rapporto e quindi come una offesa a Dio. È bene ricordare che il peccato non è una offesa a Dio, non gli fa male (Gb 35,6: “Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi?”), l’unica conseguenza del peccato è che disumanizza l’uomo, allontanandolo dall’originale progetto d’amore di Dio per lui. Peccare, lo esprime bene il termine ebraico, è fallire il bersaglio, mancare il centro: l’uomo è fatto per la gioia, Dio gli ha messo in cuore questa pulsione verso la felicità alla quale ciascuno di noi deve rispondere, allora il peccato è quando cerco la gioia per cammini sbagliati, agganciando la mia vita a valori vuoti, effimeri che lasceranno in bocca solo l’amaro senso di aver buttato l’opportunità di essere veramente felice. Di fronte al nostro peccato non troviamo un Dio meschino offeso dalla sua creatura preferita, pronto ad infliggere castighi per ottenere giustizia, ma un Dio che soffre dispiaciuto come una madre, un padre che vedono il proprio figlio buttare via la vita ed attende dalla finestra del suo cuore il ritorno del figlio tanto amato (cfr. Lc 15,11-32).
Se questo è il peccato, il perdono di Dio è quella sua azione che ci vuole riportare sulla strada giusta di una vita piena, realizzata nella gioia e nell’amore perché ciò che Dio vuole è “che neanche uno di questi piccoli si perda” (Mt 18,14, versetto che precede immediatamente l’inizio del vangelo di oggi): questa salvezza non sta in un futuro escatologico, lontano nel tempo e nello spazio, nel paradiso, ma è la felicità dell’uomo qui ed oggi!
Ora, se riconosci nell’altro un fratello e vedi che questo tuo fratello è caduto nel peccato, il primo passo è il richiamare l’altro per “convincerlo” e riportarlo nella strada giusta perché chi ama non può lasciare che l’amato si perda per strade sbagliate, non realizzi la sua gioia. È un richiamo fatto a tu per tu perché il peccato rimanga nel segreto e perché nel dialogo personale si possa aiutare meglio il fratello a capire l’errore.
Il secondo passo è l’intervento con alcuni altri fratelli che possano aiutare il peccatore a capire con altre parole, ma soprattutto facendolo sentire all’interno di una comunità che lo accoglie e lo ama.
Un ulteriore passo è portare tutto di fronte a tutta la comunità perché il peccato, ripeto il peccato e non il peccatore, venga condannato pubblicamente e non si crei scandalo verso i più piccoli e semplici.
Ma non è finita qui e la conclusione non va travisata ed è una meraviglia di Dio: se anche di fronte alla comunità tutta intera il peccatore non ascolterà, “sia per te come il pagano e il pubblicano”! Interpretare questo versetto come l’invito a lasciar andar via o meglio a scacciare il peccatore relegandolo nella nostra condanna indifferente è sbagliato. Gesù chiede di considerare colui che non ha ascoltato il richiamo della comunità alla stregua di un pubblicano e di un pagano, ma Gesù stesso si è presentato come l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Come discepoli di Cristo dobbiamo fare come il maestro: considerare il fratello che ha peccato come un pubblicano vuol dire considerare quella persona come estremamente bisognosa del nostro amore, segno concreto dell’amore di Dio; in secondo luogo considerare quel peccatore come un pagano, a mio parere, vuol dire che io sono chiamato ad annunciargli e testimoniargli concretamente il vangelo, la buona notizia che anche lui è amato con infinita tenerezza da Dio e che io sono pronto a vivere insieme a lui un’esperienza di fraternità.
Sostituiamo all’indifferenza omicida di Caino, la responsabilità amorevole della correzione fraterna perché, come suoi angeli, Dio ci ha fatto custodi della vita e della felicità di ogni fratello e sorella!
Commento 10 settembre 2017
“Sono forse io il custode di mio fratello?”: con queste parole Caino risponde a Dio che gli chiede conto di Abele, suo fratello; forse ancor più dell’omicidio quelle parole erano il segno di un rapporto di fraternità ormai inesistente. Ebbene il vangelo di oggi costituisce la risposta di Dio a Caino e a tutti coloro che non sanno vedere negli altri uomini dei fratelli. Quante parole d’odio, di razzismo e di indifferenza sentiamo pronunciare ogni giorno anche da parte di chi si dice cristiano, eppure ci sono altre parole dolcissime che, magari inconsapevolmente, ogni giorno pronunciamo: “Padre nostro...” Il cristiano è colui che sa riconoscere in ogni uomo e donna che incontra un fratello, una sorella. Allora solo chi vive rapporti di fraternità universale (“Se il tuo fratello”) potrà accogliere la buona notizia di oggi.
Una seconda premessa è l’invito a depurare la nostra idea di peccato. Troppe volte intendiamo il peccato in senso legalistico come una mancanza rispetto alla legge di Dio, una rottura del rapporto e quindi come una offesa a Dio. Ma non è così! In ebraico il verbo che indica il peccare in realtà significa “fallire il bersaglio”; peccare quindi è mancare l’obiettivo della nostra vita. Ma a questo punto dovremo chiederci quale sia il bersaglio, l’obiettivo della nostra vita, ciò che noi dobbiamo raggiungere?
Senza falsa modestia mi pare di poter affermare che Dio ci ha creati veramente bene, tanto che Egli stesso al guardare l’uomo ne rimase estremamente compiaciuto (vide che era cosa molto buona!): Dio ci ha fatto per la felicità!
L’uomo è fatto per la gioia, Dio gli ha messo in cuore questa pulsione verso la felicità alla quale ciascuno di noi deve rispondere; il nostro bersaglio, l’obiettivo è la piena realizzazione della vita nella felicità, allora il mio peccato è quando cerco la gioia per cammini sbagliati, agganciando la mia vita a valori vuoti, allora posso trovare il piacere, ma non raggiungo l’obiettivo della felicità in una vita spesa per amore.
Di fronte al nostro peccato non troviamo un Dio meschino offeso dalla sua creatura preferita pronto ad infliggere castighi per ottenere giustizia, ma un Dio che soffre dispiaciuto come una madre, un padre che vedono il proprio figlio buttare via la vita.
Se questo è il peccato, il perdono di Dio è quella sua azione che ci vuole riportare sulla strada giusta, sul cammino di una vita piena, realizzata nella gioia e nell’amore. Questa vita dell’uomo, di ogni singolo uomo, è la felicità di Dio, poiché rappresenta il suo progetto d’amore; il progetto di Dio prevede che ogni uomo e donna sia salvato e trovi la sua piena realizzazione (“È volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” Mt 18,14); ma attenzione questa salvezza non sta in un futuro escatologico, lontano nel tempo e nello spazio, nel paradiso, no questa realizzazione è la felicità dell’uomo qui ed oggi!
Ora, se riconosci nell’altro il tuo fratello, se vedi che questo tuo fratello è caduto nel peccato, tu sei chiamato a fare il primo passo (Va’ e ammoniscilo!), perché chi ama non può lasciare che l’amato si perda per strade sbagliate, non realizzi la sua gioia.
Il primo passo è il richiamare l’altro fraternamente per “convincerlo” e riportarlo nella strada giusta; un richiamo fatto a tu per tu perché il peccato rimanga nel segreto e perché nel dialogo personale si può aiutare meglio il fratello a capire l’errore.
Il secondo passo è l’intervento con alcuni altri fratelli che possano aiutare il peccatore a capire con altre parole, ma soprattutto facendolo sentire all’interno di una comunità che lo accoglie e lo ama.
Infine di fronte a tutta la comunità perché il peccato, ripeto il peccato e non il peccatore, venga condannato pubblicamente e non si crei scandalo verso i più piccoli e semplici. Ma non è finita qui!
La conclusione, se non è travisata, è davvero una meraviglia di Dio: se anche di fronte alla comunità tutta intera il peccatore non ascolterà, “sia per te come il pagano e il pubblicano”!
Interpretare questo versetto come l’invito a lasciar andar via o meglio a scacciare il peccatore relegandolo nella nostra condanna indifferente è sbagliato. Gesù chiede di considerare colui che non ha ascoltato il richiamo della comunità alla stregua di un pubblicano e di un pagano, ma Gesù stesso si è presentato come l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora anche noi dobbiamo fare come il maestro, che andò incontro a loro perché li riconosceva bisognosi dell’amore misericordioso di Dio. Considerare il fratello che ha peccato come un pubblicano vuol dire considerare quella persona come estremamente bisognosa del nostro amore, segno concreto dell’amore di Dio.
In secondo luogo la comunità è chiamata a considerare quel peccatore come un pagano, questo, a mio parere, vuol dire che, come a un pagano, io sono chiamato ad annunciargli e testimoniargli concretamente il vangelo, la buona notizia che anche lui è amato con infinita tenerezza da Dio e che io sono pronto a vivere insieme a lui un’esperienza di fraternità.
Una seconda premessa è l’invito a depurare la nostra idea di peccato. Troppe volte intendiamo il peccato in senso legalistico come una mancanza rispetto alla legge di Dio, una rottura del rapporto e quindi come una offesa a Dio. Ma non è così! In ebraico il verbo che indica il peccare in realtà significa “fallire il bersaglio”; peccare quindi è mancare l’obiettivo della nostra vita. Ma a questo punto dovremo chiederci quale sia il bersaglio, l’obiettivo della nostra vita, ciò che noi dobbiamo raggiungere?
Senza falsa modestia mi pare di poter affermare che Dio ci ha creati veramente bene, tanto che Egli stesso al guardare l’uomo ne rimase estremamente compiaciuto (vide che era cosa molto buona!): Dio ci ha fatto per la felicità!
L’uomo è fatto per la gioia, Dio gli ha messo in cuore questa pulsione verso la felicità alla quale ciascuno di noi deve rispondere; il nostro bersaglio, l’obiettivo è la piena realizzazione della vita nella felicità, allora il mio peccato è quando cerco la gioia per cammini sbagliati, agganciando la mia vita a valori vuoti, allora posso trovare il piacere, ma non raggiungo l’obiettivo della felicità in una vita spesa per amore.
Di fronte al nostro peccato non troviamo un Dio meschino offeso dalla sua creatura preferita pronto ad infliggere castighi per ottenere giustizia, ma un Dio che soffre dispiaciuto come una madre, un padre che vedono il proprio figlio buttare via la vita.
Se questo è il peccato, il perdono di Dio è quella sua azione che ci vuole riportare sulla strada giusta, sul cammino di una vita piena, realizzata nella gioia e nell’amore. Questa vita dell’uomo, di ogni singolo uomo, è la felicità di Dio, poiché rappresenta il suo progetto d’amore; il progetto di Dio prevede che ogni uomo e donna sia salvato e trovi la sua piena realizzazione (“È volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” Mt 18,14); ma attenzione questa salvezza non sta in un futuro escatologico, lontano nel tempo e nello spazio, nel paradiso, no questa realizzazione è la felicità dell’uomo qui ed oggi!
Ora, se riconosci nell’altro il tuo fratello, se vedi che questo tuo fratello è caduto nel peccato, tu sei chiamato a fare il primo passo (Va’ e ammoniscilo!), perché chi ama non può lasciare che l’amato si perda per strade sbagliate, non realizzi la sua gioia.
Il primo passo è il richiamare l’altro fraternamente per “convincerlo” e riportarlo nella strada giusta; un richiamo fatto a tu per tu perché il peccato rimanga nel segreto e perché nel dialogo personale si può aiutare meglio il fratello a capire l’errore.
Il secondo passo è l’intervento con alcuni altri fratelli che possano aiutare il peccatore a capire con altre parole, ma soprattutto facendolo sentire all’interno di una comunità che lo accoglie e lo ama.
Infine di fronte a tutta la comunità perché il peccato, ripeto il peccato e non il peccatore, venga condannato pubblicamente e non si crei scandalo verso i più piccoli e semplici. Ma non è finita qui!
La conclusione, se non è travisata, è davvero una meraviglia di Dio: se anche di fronte alla comunità tutta intera il peccatore non ascolterà, “sia per te come il pagano e il pubblicano”!
Interpretare questo versetto come l’invito a lasciar andar via o meglio a scacciare il peccatore relegandolo nella nostra condanna indifferente è sbagliato. Gesù chiede di considerare colui che non ha ascoltato il richiamo della comunità alla stregua di un pubblicano e di un pagano, ma Gesù stesso si è presentato come l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora anche noi dobbiamo fare come il maestro, che andò incontro a loro perché li riconosceva bisognosi dell’amore misericordioso di Dio. Considerare il fratello che ha peccato come un pubblicano vuol dire considerare quella persona come estremamente bisognosa del nostro amore, segno concreto dell’amore di Dio.
In secondo luogo la comunità è chiamata a considerare quel peccatore come un pagano, questo, a mio parere, vuol dire che, come a un pagano, io sono chiamato ad annunciargli e testimoniargli concretamente il vangelo, la buona notizia che anche lui è amato con infinita tenerezza da Dio e che io sono pronto a vivere insieme a lui un’esperienza di fraternità.