XXX domenica T.O. Anno C
Vangelo Lc 18, 9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Commento 23 ottobre 2022
Due uomini salgono al tempio per pregare; ora un erroneo sentimento di compassione ed un malinteso senso di umiltà troppe volte ci hanno portato a capire male questa parabola prendendo le parti del “povero” pubblicano rispetto al pavoneggiante fariseo, ma per cogliere davvero il significato di questa parabola è necessario ricordare sempre chi sono i protagonisti del racconto
I farisei, il cui nome significa “separato”, erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella Legge, ne avevano estrapolate addirittura 613 dal non mangiare il cibo impuro all’osservanza scrupolosa del riposo del sabato. Ma quest’uomo, se possibile, era ancora qualcosa di più se guardiamo alla sincerità della sua preghiera che Gesù non contesta; infatti se si era tenuti al digiuno due volte l’anno e lui digiuna tutte le settimane, se si era tenuti a pagare la decima sui prodotti principali lui la paga su tutto.
I pubblicani erano gli esattori delle tasse al servizio dei dominatori pagani, considerati dei ladri di professione e criminali patentati ed autorizzati infatti potevano trattenere senza commettere reato tutto ciò che riuscivano a raccogliere oltre le tasse da inviare a Roma. Erano i trasgressori di tutti i comandamenti ed avevano come un marchio di impurità per il quale era considerazione comune tra il popolo che per loro non ci fosse alcuna speranza di salvezza.
Insomma quel fariseo ed il pubblicano sono gli antipodi di una umanità che cerca un conforto da Dio: il primo, un modello di una vita religiosa coerente pienamente vissuta e il secondo, un peccatore conclamato e pertanto escluso da ogni possibile contatto con Dio.
Entrambi pregano in piedi e a voce alta come prescritto per gli ebrei, entrambi si rivolgono a Dio, ma il fariseo prega “rivolto a sé stesso”, come dice letteralmente il testo greco. Così il fariseo, che conosce le regole del pregare, inizia con le parole giuste “o Dio ti ringrazio”, ma poi sbaglia tutto, non celebra Dio per i doni ricevuti, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie e la sua preghiera da Dio passa all’Io: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Nella mentalità del fariseo Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva tutti quei comportamenti, che lo rendevano diverso da tutti gli altri. Insomma il fariseo si rivolge a Dio con la pretesa che lo riconosca come un giusto che ha saputo vivere una vita buona con le sue forze, senza comprendere che tutte le sue opere buone non gli conferiscono il diritto di salvezza, ma sono doni di Dio che lo ha guidato sulla strada della vita.
La preghiera del fariseo prosegue peggio dopo aver gettato l’occhio su quell’uomo che nel fondo del tempio, proprio quell’uomo un pubblicano, un impuro osava pregare lo stesso Dio; la preghiera diventa confronto, giudizio su quell’uomo: “io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio!”. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire (dire male di) i suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli: ciò che mi fa più male nel clima di odio e di razzismo che si diffonde sempre più in questa nostra società è il pensare che tra coloro che vivono questi sentimenti sono presenti anche alcuni, o forse tanti, che si rivolgono a Dio quotidianamente con il “Padre Nostro”, ma poi non riconoscono attorno a sé quei fratelli che con questa espressione certificano di avere.
Nel medesimo tempo il pubblicano in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: da io a Dio, da io a tu: “Signore, tu abbi pietà”. Le regole della preghiera sono semplici, valgono per tutti e sono le stesse regole della vita: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona né in famiglia, né con gli amici, tantomeno con Dio; pregare è entrare in contatto con Dio, è un legame d’amore e nell’amore, quello vero, il tu viene prima dell’io.
Infine la preghiera è convertire la nostra mente ai pensieri di Dio, vivere la nostra vita in armonia con il progetto d’amore di Dio: il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri ad essere sbagliati, e forse un po' anche Dio quando non risponde adeguatamente alla sua esperienza religiosa; il pubblicano invece non è contento della sua vita e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta ed ecco la preghiera diventa vita, lascia spazio all’intervento di Dio che salva e giustifica, rende giusto. Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo ma perché si è aperto a Dio, mentre il fariseo “pieno” delle sue opere giuste e buone ha chiuso Dio fuori dalla sua vita.
In conclusione non otteniamo la salvezza con le nostre opere, ma lasciando la porta del nostro cuore aperta all’intervento di Dio, non conquistiamo Dio con i nostri meriti, ma con i nostri bisogni!
I farisei, il cui nome significa “separato”, erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella Legge, ne avevano estrapolate addirittura 613 dal non mangiare il cibo impuro all’osservanza scrupolosa del riposo del sabato. Ma quest’uomo, se possibile, era ancora qualcosa di più se guardiamo alla sincerità della sua preghiera che Gesù non contesta; infatti se si era tenuti al digiuno due volte l’anno e lui digiuna tutte le settimane, se si era tenuti a pagare la decima sui prodotti principali lui la paga su tutto.
I pubblicani erano gli esattori delle tasse al servizio dei dominatori pagani, considerati dei ladri di professione e criminali patentati ed autorizzati infatti potevano trattenere senza commettere reato tutto ciò che riuscivano a raccogliere oltre le tasse da inviare a Roma. Erano i trasgressori di tutti i comandamenti ed avevano come un marchio di impurità per il quale era considerazione comune tra il popolo che per loro non ci fosse alcuna speranza di salvezza.
Insomma quel fariseo ed il pubblicano sono gli antipodi di una umanità che cerca un conforto da Dio: il primo, un modello di una vita religiosa coerente pienamente vissuta e il secondo, un peccatore conclamato e pertanto escluso da ogni possibile contatto con Dio.
Entrambi pregano in piedi e a voce alta come prescritto per gli ebrei, entrambi si rivolgono a Dio, ma il fariseo prega “rivolto a sé stesso”, come dice letteralmente il testo greco. Così il fariseo, che conosce le regole del pregare, inizia con le parole giuste “o Dio ti ringrazio”, ma poi sbaglia tutto, non celebra Dio per i doni ricevuti, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie e la sua preghiera da Dio passa all’Io: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Nella mentalità del fariseo Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva tutti quei comportamenti, che lo rendevano diverso da tutti gli altri. Insomma il fariseo si rivolge a Dio con la pretesa che lo riconosca come un giusto che ha saputo vivere una vita buona con le sue forze, senza comprendere che tutte le sue opere buone non gli conferiscono il diritto di salvezza, ma sono doni di Dio che lo ha guidato sulla strada della vita.
La preghiera del fariseo prosegue peggio dopo aver gettato l’occhio su quell’uomo che nel fondo del tempio, proprio quell’uomo un pubblicano, un impuro osava pregare lo stesso Dio; la preghiera diventa confronto, giudizio su quell’uomo: “io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio!”. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire (dire male di) i suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli: ciò che mi fa più male nel clima di odio e di razzismo che si diffonde sempre più in questa nostra società è il pensare che tra coloro che vivono questi sentimenti sono presenti anche alcuni, o forse tanti, che si rivolgono a Dio quotidianamente con il “Padre Nostro”, ma poi non riconoscono attorno a sé quei fratelli che con questa espressione certificano di avere.
Nel medesimo tempo il pubblicano in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: da io a Dio, da io a tu: “Signore, tu abbi pietà”. Le regole della preghiera sono semplici, valgono per tutti e sono le stesse regole della vita: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona né in famiglia, né con gli amici, tantomeno con Dio; pregare è entrare in contatto con Dio, è un legame d’amore e nell’amore, quello vero, il tu viene prima dell’io.
Infine la preghiera è convertire la nostra mente ai pensieri di Dio, vivere la nostra vita in armonia con il progetto d’amore di Dio: il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri ad essere sbagliati, e forse un po' anche Dio quando non risponde adeguatamente alla sua esperienza religiosa; il pubblicano invece non è contento della sua vita e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta ed ecco la preghiera diventa vita, lascia spazio all’intervento di Dio che salva e giustifica, rende giusto. Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo ma perché si è aperto a Dio, mentre il fariseo “pieno” delle sue opere giuste e buone ha chiuso Dio fuori dalla sua vita.
In conclusione non otteniamo la salvezza con le nostre opere, ma lasciando la porta del nostro cuore aperta all’intervento di Dio, non conquistiamo Dio con i nostri meriti, ma con i nostri bisogni!
Commento 27 ottobre 2019
Gesù insiste sulla necessità di pregare, ma pregare può essere pericoloso, può perfino separarci da Dio, renderci “atei”, adoratori di un idolo che altro non è che me stesso.
Due uomini salgono al tempio per pregare. Sono gli antipodi di una umanità che cerca un conforto da Dio: un fariseo ed un pubblicano, il modello di una vita religiosa coerente pienamente vissuta e il peccatore conclamato e pertanto escluso da ogni possibile contatto con Dio.
Un erroneo sentimento di compassione ed un malinteso senso di umiltà troppe volte ci hanno portato a capire male questa parabola prendendo le parti del “povero” pubblicano. Attenzione, ci troviamo davanti a un fariseo e a un pubblicano non dimentichiamolo mai!
I farisei, il cui nome significa “separato”, erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella Legge, ne avevano estrapolate addirittura 613 dal non mangiare il cibo impuro all’osservanza scrupolosa del riposo del sabato. Ma quest’uomo, se possibile, era ancora qualcosa di più se guardiamo alla sincerità della sua preghiera che Gesù non contesta; infatti se si era tenuti al digiuno due volte l’anno e lui digiuna tutte le settimane, se si era tenuti a pagare la decima sui prodotti principali lui la paga su tutto.
I pubblicani erano gli esattori delle tasse al servizio dei dominatori pagani, considerati dei ladri di professione e criminali patentati ed autorizzati infatti potevano trattenere senza commettere reato tutto ciò che riuscivano a raccogliere oltre le tasse da inviare a Roma. Erano i trasgressori di tutti i comandamenti ed avevano come un marchio di impurità per il quale era considerazione comune tra il popolo che per loro non ci fosse alcuna speranza di salvezza.
Entrambi pregano in piedi e a voce come prescritto per gli ebrei, entrambi si rivolgono a Dio, ma il fariseo prega “rivolto a sé stesso”, come nota Luca e dice letteralmente il testo greco. Così il fariseo, che conosce le regole del pregare, inizia con le parole giuste “o Dio ti ringrazio”, ma poi sbaglia tutto, non celebra Dio per i doni ricevuti, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie e la sua preghiera da Dio passa all’Io: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Nella mentalità del fariseo Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva tutti quei comportamenti, che lo rendevano diverso da tutti gli altri. Insomma il fariseo si rivolge a Dio con la pretesa che lo riconosca come un giusto che ha saputo vivere una vita buona con le sue forze, senza comprendere che tutte le sue opere buone non gli conferiscono il diritto di salvezza, ma sono doni di Dio che lo guidato sulla strada della vita.
La preghiera del fariseo prosegue peggio dopo aver gettato l’occhio su quell’uomo che nel fondo del tempio osava pregare, lui, il pubblicano, l’impuro: io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire (dire male) i suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli: ciò che mi fa più male nel clima di odio e di razzismo che si diffonde sempre più in questa nostra società è il pensare che tra coloro che vivono questi sentimenti sono presenti anche alcuni, o forse tanti, che si rivolgono a Dio quotidianamente con il “Padre Nostro”, ma poi non riconoscono attorno a sé quei fratelli che con questa espressione certificano di avere.
Invece il pubblicano in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: da io a Dio, da io a tu: “Signore, tu abbi pietà”. Le regole della preghiera sono semplici, valgono per tutti e sono le stesse regole della vita: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona né in famiglia, né con gli amici, tantomeno con Dio; pregare è entrare in contatto con Dio, è un legame d’amore e nell’amore, quello vero, il tu viene prima dell’io.
Infine la preghiera è convertire la nostra mente ai pensieri di Dio, vivere la nostra vita in armonia con il progetto d’amore di Dio: il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po' anche Dio quando non risponde adeguatamente alla sua esperienza religiosa; il pubblicano invece non è contento della sua vita e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta ed ecco la preghiera diventa vita, lascia spazio all’intervento di Dio che salva e giustifica, rende giusto. Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo ma perché si è aperto a Dio, mentre il fariseo “pieno” delle sue opere giuste e buone ha chiuso Dio fuori dalla sua vita.
In conclusione non otteniamo la salvezza con le nostre opere, ma lasciando la porta del nostro cuore aperta all’intervento di Dio, non conquistiamo Dio con i nostri meriti, ma con i nostri bisogni!
Due uomini salgono al tempio per pregare. Sono gli antipodi di una umanità che cerca un conforto da Dio: un fariseo ed un pubblicano, il modello di una vita religiosa coerente pienamente vissuta e il peccatore conclamato e pertanto escluso da ogni possibile contatto con Dio.
Un erroneo sentimento di compassione ed un malinteso senso di umiltà troppe volte ci hanno portato a capire male questa parabola prendendo le parti del “povero” pubblicano. Attenzione, ci troviamo davanti a un fariseo e a un pubblicano non dimentichiamolo mai!
I farisei, il cui nome significa “separato”, erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella Legge, ne avevano estrapolate addirittura 613 dal non mangiare il cibo impuro all’osservanza scrupolosa del riposo del sabato. Ma quest’uomo, se possibile, era ancora qualcosa di più se guardiamo alla sincerità della sua preghiera che Gesù non contesta; infatti se si era tenuti al digiuno due volte l’anno e lui digiuna tutte le settimane, se si era tenuti a pagare la decima sui prodotti principali lui la paga su tutto.
I pubblicani erano gli esattori delle tasse al servizio dei dominatori pagani, considerati dei ladri di professione e criminali patentati ed autorizzati infatti potevano trattenere senza commettere reato tutto ciò che riuscivano a raccogliere oltre le tasse da inviare a Roma. Erano i trasgressori di tutti i comandamenti ed avevano come un marchio di impurità per il quale era considerazione comune tra il popolo che per loro non ci fosse alcuna speranza di salvezza.
Entrambi pregano in piedi e a voce come prescritto per gli ebrei, entrambi si rivolgono a Dio, ma il fariseo prega “rivolto a sé stesso”, come nota Luca e dice letteralmente il testo greco. Così il fariseo, che conosce le regole del pregare, inizia con le parole giuste “o Dio ti ringrazio”, ma poi sbaglia tutto, non celebra Dio per i doni ricevuti, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie e la sua preghiera da Dio passa all’Io: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Nella mentalità del fariseo Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva tutti quei comportamenti, che lo rendevano diverso da tutti gli altri. Insomma il fariseo si rivolge a Dio con la pretesa che lo riconosca come un giusto che ha saputo vivere una vita buona con le sue forze, senza comprendere che tutte le sue opere buone non gli conferiscono il diritto di salvezza, ma sono doni di Dio che lo guidato sulla strada della vita.
La preghiera del fariseo prosegue peggio dopo aver gettato l’occhio su quell’uomo che nel fondo del tempio osava pregare, lui, il pubblicano, l’impuro: io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire (dire male) i suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli: ciò che mi fa più male nel clima di odio e di razzismo che si diffonde sempre più in questa nostra società è il pensare che tra coloro che vivono questi sentimenti sono presenti anche alcuni, o forse tanti, che si rivolgono a Dio quotidianamente con il “Padre Nostro”, ma poi non riconoscono attorno a sé quei fratelli che con questa espressione certificano di avere.
Invece il pubblicano in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: da io a Dio, da io a tu: “Signore, tu abbi pietà”. Le regole della preghiera sono semplici, valgono per tutti e sono le stesse regole della vita: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona né in famiglia, né con gli amici, tantomeno con Dio; pregare è entrare in contatto con Dio, è un legame d’amore e nell’amore, quello vero, il tu viene prima dell’io.
Infine la preghiera è convertire la nostra mente ai pensieri di Dio, vivere la nostra vita in armonia con il progetto d’amore di Dio: il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po' anche Dio quando non risponde adeguatamente alla sua esperienza religiosa; il pubblicano invece non è contento della sua vita e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta ed ecco la preghiera diventa vita, lascia spazio all’intervento di Dio che salva e giustifica, rende giusto. Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo ma perché si è aperto a Dio, mentre il fariseo “pieno” delle sue opere giuste e buone ha chiuso Dio fuori dalla sua vita.
In conclusione non otteniamo la salvezza con le nostre opere, ma lasciando la porta del nostro cuore aperta all’intervento di Dio, non conquistiamo Dio con i nostri meriti, ma con i nostri bisogni!
Commento 23 ottobre 2016
Il vangelo è quello classico della parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, parabola che Gesù volle rivolgere a chi viveva l’intima presunzione di essere giusto, disprezzando tutti gli altri. troppo spesso è stata fatta una lettura moralistica di questo brano: ma che bravo il pubblicano che umilmente si pone di fronte a Dio, al contrario del presuntuoso e falso fariseo che rivendica meriti che non ha. Credo che questo tipo di lettura non sia perfettamente corretta: i farisei erano laici, la loro comunità era nata nel periodo dell’ellenizzazione di Israele, quando i re Macedoni volevano imporre la religione pagana anche in Israele; il loro nome che significa separati indicava la volontà di tutti loro nel vivere pienamente la Legge di Dio nonostante le persecuzioni e le difficoltà.
il fariseo non rivendica meriti che non ha: veramente egli digiuna due volte la settimana quando era prescritta una sola volta; veramente paga la decima di quanto possiede e non solo di quanto guadagnato; egli vive fino in fondo il suo essere ebreo e non lo fa soprattutto in maniera ipocrita. La presunzione del fariseo non sta quindi nel vantarsi di qualcosa che non fa, ma nel ritenere che il suo essere ligio nel vivere in ogni piccola norma la Legge di Dio possa meritargli non solo il premio eterno, ma anche una vita fortunata in questo mondo.
Il pubblicano nei suoi numerosi peccati trova la forza per chiedere perdono e pietà a Dio: riconosce che tutto è dono perché non ha nulla di buono, forse, da mostrare a Dio; insomma non potendo portare nulla il pubblicano porta sé stesso, con i suoi limiti, le sue incoerenze e i suoi peccati, e, mostrandosi a mani nude, anzi sporche, apre il suo cuore a Dio che lo aspettava sull’uscio della sua vita.
Dio non ha bisogno delle nostre opere buone, Dio ha bisogno di ciascuno di noi e ci chiede costantemente di collaborare alla costruzione del Regno per rendere concreto il suo progetto d’amore.
Chi pensa di conquistarsi Dio non potrà riuscire nella sua impresa, Egli non si lascia comprare, Dio che è Amore si regala ad ognuno di noi purché in atteggiamento di umiltà ci lasciamo stringere nel suo infinito e tenerissimo abbraccio d’amore anche se ne siamo indegni.
il fariseo non rivendica meriti che non ha: veramente egli digiuna due volte la settimana quando era prescritta una sola volta; veramente paga la decima di quanto possiede e non solo di quanto guadagnato; egli vive fino in fondo il suo essere ebreo e non lo fa soprattutto in maniera ipocrita. La presunzione del fariseo non sta quindi nel vantarsi di qualcosa che non fa, ma nel ritenere che il suo essere ligio nel vivere in ogni piccola norma la Legge di Dio possa meritargli non solo il premio eterno, ma anche una vita fortunata in questo mondo.
Il pubblicano nei suoi numerosi peccati trova la forza per chiedere perdono e pietà a Dio: riconosce che tutto è dono perché non ha nulla di buono, forse, da mostrare a Dio; insomma non potendo portare nulla il pubblicano porta sé stesso, con i suoi limiti, le sue incoerenze e i suoi peccati, e, mostrandosi a mani nude, anzi sporche, apre il suo cuore a Dio che lo aspettava sull’uscio della sua vita.
Dio non ha bisogno delle nostre opere buone, Dio ha bisogno di ciascuno di noi e ci chiede costantemente di collaborare alla costruzione del Regno per rendere concreto il suo progetto d’amore.
Chi pensa di conquistarsi Dio non potrà riuscire nella sua impresa, Egli non si lascia comprare, Dio che è Amore si regala ad ognuno di noi purché in atteggiamento di umiltà ci lasciamo stringere nel suo infinito e tenerissimo abbraccio d’amore anche se ne siamo indegni.