V Domenica di Pasqua Anno B
Vangelo Gv 15, 1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Commento 2 maggio 2021
Nel vangelo di Giovanni Gesù non parla mai in parabole, ma impiega similitudini ed immagini tratte dalla vita quotidiana per comunicare il suo messaggio: nel testo di oggi Gesù riprende un'immagine classica nella religiosità ebraica, dove la vigna ha sempre rappresentato quel popolo che Dio si è coltivato (cfr. Is 5). Si notano subito alcune differenze: innanzitutto qui la vite non è il popolo, ma Gesù stesso, il Figlio di Dio; in secondo luogo appare evidente il tono polemico quando Gesù ricorda di essere la vite, quella vera in contrapposizione alle viti false. Con grande insistenza Gesù ripete “portare frutto” perché se la vite non produce uva, il suo legno non serve a nulla se non a essere bruciato (Ez 15). È il frutto, infatti che discrimina tra la vite falsa e quella vera: i profeti non condannavano il popolo di Israele in sé, ma una certa pratica religiosa fatta di apparenze, di grandi manifestazioni, processioni, riti e pellegrinaggi, ma che non portava frutti graditi a Dio. Era una vigna, quella di Israele che produceva soltanto grappoli acidi e non vino buono della gioia e dell'amore (cfr. Is 5,2-7), ma tutto questo riguarda anche noi perché si può essere discepoli di Cristo solo a parole ed è necessario chiederci cosa produca la nostra vita: voglia di dominio oppure servizio, indifferenza o accoglienza, isolamento o comunione, egoismo o amore, tristezza o gioia. L'unico frutto che il Padre si aspetta è la gioia, la costruzione di un mondo in cui tutti i suoi figli siano felici.
Quante volte cerchiamo definizioni di Dio con ragionamenti cervellotici ed astratti, lo dico a me stesso, nel mio lavoro di insegnante o nel mio servizio come catechista: Gesù presenta il Padre come un contadino, parla di Dio con le semplici parole della vita e del lavoro perché Dio non è poi così complicato, è semplice come l’amore!
Allora per condividere qualcosa su questo brano ripesco i miei ricordi da bambino quando in fredde domeniche d'inverno seguivo mio nonno che andava nella vigna per la potatura; il suo sguardo teso a scrutare ogni singolo tralcio per capire quale fra quelli era più adatto a portare frutto, sognando il raccolto abbondante dell'autunno; poi a fine estate, a poche settimane dalla vendemmia eccolo di nuovo lì tornare tra quelle viti che aveva coltivato tutto l'anno per eliminare quei tralci che non avendo prodotto grappoli non servivano a nulla con lo sguardo deluso per l’occasione mancata, ma con la determinazione di chi sa quanto fosse necessario quell’ultima potatura perché la vite non disperdesse le sue energie in tralci improduttivi.
Vedo nello sguardo del nonno lo stesso volto di Dio, che bene mi scruta e mi conosce, quando con forza e tenerezza taglia i tralci improduttivi dalla mia vita; immagino gli occhi di Dio che si posano dolcemente sulla mia vita e la sua amorevole attenzione nel cogliere la parte migliore di me perché ci vuole scommettere sopra, immagino le sue mani che con dolcezza purificano i tralci buoni dai germogli più deboli e tardivi perché quel tralcio potesse produrre un frutto ancora più abbondante e migliore.
Dio ci pota con la sua Parola, che illumina tutti i contesti della nostra vita per indicarci tutti i rami secchi che vanno eliminati, i germogli e le foglie inutili che tolgono spazio e luce del sole ai tralci produttivi; potare non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza con lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo, di far fiorire tutto ciò che di più bello e promettente c'è in me.
Un'altra parola ricorre insistentemente in questo testo ed è il verbo “rimanere”, un verbo molto importante in tutto il vangelo di Giovanni e che merita di essere compreso. Provo con un esempio: quando uno è innamorato porta sempre dentro di lui la persona amata, la porta nel suo cuore, la ricorda continuamente con gioia in qualunque situazione; non si tratta quindi di abitare uno spazio materiale, ma di una relazione profonda, di una comunicazione intima di pensieri, di emozioni, di sogni, di scelte. Ecco rimanere in Gesù significa rimanere nel suo mondo, nel suo modo di pensare, di agire e di amare: come tralci preziosi siamo chiamati a “rimanere” innestati nella vera vite che è Gesù; bene spiegava tutto questo Paolo quando scriveva ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me.” (Gal 2,19b-20); Dio ci ha acquistati, conquistati con il dono supremo del suo amore, ora non posso che vivere la mia vita per riversare parte dell'amore che ho ricevuto verso i miei fratelli più bisognosi.
Nel nostro portare frutto e nel diventare suoi discepoli sta la gloria di Dio perché la vite non produce frutto per sé, ma perché qualcuno ne possa godere: il discepolo di Cristo non produce amore per autocompiacersi della propria perfezione morale o per ottenere un premio in paradiso, ma perché gioisce nel vedere qualcuno che è felice, è lieto di verificare che l'amore di Dio si è manifestato attraverso di lui, dà il suo contributo alla nascita di un mondo dove c'è la gioia. Di tutto questo Dio sarà orgoglioso di ciascuno di noi perché potrà vantarsi dell’amore che avremo saputo donare.
Quante volte cerchiamo definizioni di Dio con ragionamenti cervellotici ed astratti, lo dico a me stesso, nel mio lavoro di insegnante o nel mio servizio come catechista: Gesù presenta il Padre come un contadino, parla di Dio con le semplici parole della vita e del lavoro perché Dio non è poi così complicato, è semplice come l’amore!
Allora per condividere qualcosa su questo brano ripesco i miei ricordi da bambino quando in fredde domeniche d'inverno seguivo mio nonno che andava nella vigna per la potatura; il suo sguardo teso a scrutare ogni singolo tralcio per capire quale fra quelli era più adatto a portare frutto, sognando il raccolto abbondante dell'autunno; poi a fine estate, a poche settimane dalla vendemmia eccolo di nuovo lì tornare tra quelle viti che aveva coltivato tutto l'anno per eliminare quei tralci che non avendo prodotto grappoli non servivano a nulla con lo sguardo deluso per l’occasione mancata, ma con la determinazione di chi sa quanto fosse necessario quell’ultima potatura perché la vite non disperdesse le sue energie in tralci improduttivi.
Vedo nello sguardo del nonno lo stesso volto di Dio, che bene mi scruta e mi conosce, quando con forza e tenerezza taglia i tralci improduttivi dalla mia vita; immagino gli occhi di Dio che si posano dolcemente sulla mia vita e la sua amorevole attenzione nel cogliere la parte migliore di me perché ci vuole scommettere sopra, immagino le sue mani che con dolcezza purificano i tralci buoni dai germogli più deboli e tardivi perché quel tralcio potesse produrre un frutto ancora più abbondante e migliore.
Dio ci pota con la sua Parola, che illumina tutti i contesti della nostra vita per indicarci tutti i rami secchi che vanno eliminati, i germogli e le foglie inutili che tolgono spazio e luce del sole ai tralci produttivi; potare non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza con lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo, di far fiorire tutto ciò che di più bello e promettente c'è in me.
Un'altra parola ricorre insistentemente in questo testo ed è il verbo “rimanere”, un verbo molto importante in tutto il vangelo di Giovanni e che merita di essere compreso. Provo con un esempio: quando uno è innamorato porta sempre dentro di lui la persona amata, la porta nel suo cuore, la ricorda continuamente con gioia in qualunque situazione; non si tratta quindi di abitare uno spazio materiale, ma di una relazione profonda, di una comunicazione intima di pensieri, di emozioni, di sogni, di scelte. Ecco rimanere in Gesù significa rimanere nel suo mondo, nel suo modo di pensare, di agire e di amare: come tralci preziosi siamo chiamati a “rimanere” innestati nella vera vite che è Gesù; bene spiegava tutto questo Paolo quando scriveva ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me.” (Gal 2,19b-20); Dio ci ha acquistati, conquistati con il dono supremo del suo amore, ora non posso che vivere la mia vita per riversare parte dell'amore che ho ricevuto verso i miei fratelli più bisognosi.
Nel nostro portare frutto e nel diventare suoi discepoli sta la gloria di Dio perché la vite non produce frutto per sé, ma perché qualcuno ne possa godere: il discepolo di Cristo non produce amore per autocompiacersi della propria perfezione morale o per ottenere un premio in paradiso, ma perché gioisce nel vedere qualcuno che è felice, è lieto di verificare che l'amore di Dio si è manifestato attraverso di lui, dà il suo contributo alla nascita di un mondo dove c'è la gioia. Di tutto questo Dio sarà orgoglioso di ciascuno di noi perché potrà vantarsi dell’amore che avremo saputo donare.
Commento 29 aprile 2018
Nel vangelo di oggi Giovanni utilizza una seconda immagine presa dal mondo rurale per parlare di Dio; dopo la figura del “buon/bel pastore” ecco l’immagine della vite. Innanzitutto occorre ricordare come l’immagine della vite sia classica nella religiosità ebraica, dove la vigna ha da sempre rappresentato quel popolo che Dio si è coltivato (cfr. Is 5); in questo caso però si nota fin da subito una differenza: qui la vite non è il popolo, ma Gesù, il Figlio di Dio incarnato. In secondo luogo appare evidente il tono polemico dell’espressione quando Gesù ricorda di essere la vite, quella vera in contrapposizione a viti false, non buone. Come anche altre immagini rurali utilizzate da Gesù, anche questa oggi rischia di perdere il proprio significato a confronto con un uditorio che non conosce più quel tipo di mondo. Allora per condividere qualcosa su questo brano ripesco i miei ricordi da bambino quando in fredde domeniche di inverno seguivo mio nonno che andava nella vigna per la potatura. Mi ricordava come fosse necessario quel lavoro per permettere alla vite di produrre frutti buoni ed abbondanti senza disperdere le sue energie in tralci inutili e mi raccontava come fossero necessarie due potature, una in inverno più forte ed una seconda al termine dell’estate con l’avvicinarsi della vendemmia per eliminare quei tralci che non avendo prodotto grappoli non servivano a nulla. Anche il racconto di oggi parla di due potature: prima si parla di tralci che vengono tagliati perché non porteranno frutto e poi parla di potatura, sarebbe più corretto parlare di purificazione dei tralci che hanno frutti perché possano portare frutti più abbondanti.
Guardiamo a questa immagine dove la vite è Gesù, noi siamo i tralci e Dio è l’agricoltore e cerchiamo di cogliere quale possa essere il messaggio per noi oggi. Se penso a Dio come l’agricoltore vedo ancora mio nonno che mirava e rimirava molte volte la vite prima di procedere alla potatura; cercava di capire quali potessero essere gli occhi da cui far uscire i tralci ricchi di frutti. Immagino allora gli occhi di Dio che si posano dolcemente sulla mia vita e la sua amorevole attenzione nel cogliere la parte migliore di me. Ma Dio non solo opera la prima potatura, ma cura, pota, purifica anche quei tralci buoni perché possano portare ancora più frutto. Lo strumento di questa potatura e purificazione è la Parola di Dio: è grazie alla sua Parola che Egli continuamente converte i nostri cuori perché noi possiamo trovare la nostra piena realizzazione nell’amore condiviso e donato ai fratelli.
Ecco il primo vangelo, la nostra vita scorre sotto l’amorevole sguardo di Dio, abbandoniamo la nostra vita nelle docili mani di Dio perché possa Lui potare quelle parti della mia vita che mi allontanano dall’amore e così Egli possa fare di me, di ciascuno di noi un’opera meravigliosa.
Noi come tralci preziosi siamo chiamati a “rimanere” innestati nella vera vite che è Gesù; bene spiegava tutto questo Paolo quando scriveva ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.” (Gal 2,19b-20); Dio ci ha acquistati, conquistati con il dono supremo del suo amore, ora non posso che vivere la mia vita per riversare quanto ho ricevuto verso i miei fratelli più bisognosi.
Riconosciamoci umili tralci che, se recisi dalla vera vite, non servono più a nulla se non a essere bruciati (cfr. Ez 15,1-4). Dobbiamo essere consapevoli che, staccati da Cristo, non viviamo più quell’amore vero, senso ultimo e determinante della nostra vita.
Ma come rimanere in Cristo? Una sola appare la via: ascoltare, meditare, vivere pienamente la sua Parola; solo una vita di questo tipo porterà frutti di amore, condivisione, amicizia, frutti graditi a Dio. Non dimentichiamolo solo i nostri frutti e il diventare discepoli di Cristo porteranno gloria a Dio, che, come un Padre orgoglioso dei suoi figli, potrà vantarsi dell’amore che avremo saputo donare.
Guardiamo a questa immagine dove la vite è Gesù, noi siamo i tralci e Dio è l’agricoltore e cerchiamo di cogliere quale possa essere il messaggio per noi oggi. Se penso a Dio come l’agricoltore vedo ancora mio nonno che mirava e rimirava molte volte la vite prima di procedere alla potatura; cercava di capire quali potessero essere gli occhi da cui far uscire i tralci ricchi di frutti. Immagino allora gli occhi di Dio che si posano dolcemente sulla mia vita e la sua amorevole attenzione nel cogliere la parte migliore di me. Ma Dio non solo opera la prima potatura, ma cura, pota, purifica anche quei tralci buoni perché possano portare ancora più frutto. Lo strumento di questa potatura e purificazione è la Parola di Dio: è grazie alla sua Parola che Egli continuamente converte i nostri cuori perché noi possiamo trovare la nostra piena realizzazione nell’amore condiviso e donato ai fratelli.
Ecco il primo vangelo, la nostra vita scorre sotto l’amorevole sguardo di Dio, abbandoniamo la nostra vita nelle docili mani di Dio perché possa Lui potare quelle parti della mia vita che mi allontanano dall’amore e così Egli possa fare di me, di ciascuno di noi un’opera meravigliosa.
Noi come tralci preziosi siamo chiamati a “rimanere” innestati nella vera vite che è Gesù; bene spiegava tutto questo Paolo quando scriveva ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.” (Gal 2,19b-20); Dio ci ha acquistati, conquistati con il dono supremo del suo amore, ora non posso che vivere la mia vita per riversare quanto ho ricevuto verso i miei fratelli più bisognosi.
Riconosciamoci umili tralci che, se recisi dalla vera vite, non servono più a nulla se non a essere bruciati (cfr. Ez 15,1-4). Dobbiamo essere consapevoli che, staccati da Cristo, non viviamo più quell’amore vero, senso ultimo e determinante della nostra vita.
Ma come rimanere in Cristo? Una sola appare la via: ascoltare, meditare, vivere pienamente la sua Parola; solo una vita di questo tipo porterà frutti di amore, condivisione, amicizia, frutti graditi a Dio. Non dimentichiamolo solo i nostri frutti e il diventare discepoli di Cristo porteranno gloria a Dio, che, come un Padre orgoglioso dei suoi figli, potrà vantarsi dell’amore che avremo saputo donare.