XIII domenica T.O. Anno A
Vangelo Mt 10, 37-42
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto.
E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Commento 2 luglio 2023
Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la bella notizia di un Dio che ama infinitamente le sue creature, avvertendoli che questo messaggio non sarà accolto con gioia dagli uomini; chi sceglierà di essere discepolo di Cristo si troverà ad essere come pecora in un mondo di lupi. Avendo chiara la prospettiva verso la quale siamo chiamati, Gesù invita i suoi discepoli ad una scelta radicale per essere degni di Lui. Qui le parole di Gesù si fanno molto severe e dure, infatti per il discepolo non sono possibili atteggiamenti tiepidi: “Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me non è degno di me!”. Sono parole tanto tremende che se non vengono contestualizzate risultano incomprensibili e possono creare scandalo, soprattutto se messe in relazione al comandamento dell’amore, un comandamento che deve avere come oggetto anche il nemico se fosse necessario. Come può, infatti, chi mi chiama all’amore per i nemici nello stesso tempo annullare i miei più cari affetti in questo mondo?
Matteo rivolge queste parole alla sua comunità, una comunità di uomini e donne provenienti dal popolo ebraico, che avevano accolto e seguito il messaggio di Gesù considerato eretico nel mondo giudaico; pertanto la conseguenza di questo era la condanna e l’emarginazione anche all’interno della stessa famiglia, l’incomprensione da parte dei figli o la perdita al diritto all’eredità; insomma la situazione era drammatica per molti.
Con quelle parole così dure Gesù non intende contrapporre l’amore verso Dio all’amore verso i propri familiari, ma vuole riproporre la radicalità che la sequela di Cristo richiede. Questo tema era molto chiaro ai cristiani: di fronte a loro vi erano soltanto due vie, quella del bene e quella del male, o Dio o Mammonà! Ora per molti scegliere Cristo voleva dire rompere anche i legami familiari.
Quelle parole “non è degno di me” sono il richiamo ad un rapporto esclusivo con Dio, così come quelle ascoltate da Mosè sul monte Sinai: “Non avrai altri dèi di fronte a me […] Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20,3.5).
Quella di Gesù non è una classifica degli affetti per la quale l’amore di Dio dovrebbe superare tutti gli altri, ma l’affermazione di un Dio capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere. Non viene sminuito l’amore umano, di paternità, maternità o figliolanza, di innamoramento o di passione, ma viene visto come un riflesso dell’infinito amore di Dio. L’amore di Dio non è diverso dall’amore umano, ma ne è il prototipo, l’evoluzione: ogni affetto umano è testimonianza e annuncio, dell’unico amore di Dio.
Oggi siamo chiamati a scegliere, siamo chiamati a dire il nostro sì a Dio, un sì forte, definitivo; guardandomi attorno vedo sempre più spesso persone che vivono di scelte con un orizzonte temporale molto limitato anche su scelte e temi che invece chiamano all’eternità come l’amore sponsale: “Oggi ti amo, domani chissà! Viviamo il presente!”
Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli ossequiosi, ma amanti innamorati e per tutti coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.
Una seconda affermazione mi colpisce: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me!”. Qui il problema nasce dall’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza; se così fosse una affermazione del genere potrebbe indicare un atteggiamento masochista del discepolo ma non è così. La croce non è segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio, uno strumento certamente paradossale perché rappresenta una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato, ma domandiamoci: come potrebbe quel Dio che è Padre/Madre amorevole proporre ai propri figli la strada della sofferenza e della tortura subita ed accolta come via di salvezza?
Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé. Seguire Gesù significa vivere secondo il progetto di Dio, aprirsi al dono della propria vita ed allora accogliere la croce significa entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita per ritrovarne il senso, quello vero, pieno ed eterno.
Nella seconda parte il tono cambia perché il discepolo non avrà di fronte a sé solo l’incomprensione e la persecuzione, ma incontrerà nel mondo anche e soprattutto la gioia di essere accolto: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Accogliere il discepolo significa accogliere lo stesso Signore, accogliere il suo vangelo, accogliere l’incredibile stupenda notizia di un Dio che ci ama alla follia e che ci invita ad amare perché solo così la nostra vita avrà la sua vera e piena realizzazione! Così coloro che ci accoglieranno come profeti di un mondo nuovo avranno la ricompensa dei profeti e coloro che ci accoglieranno come discepoli dell’amore avranno la ricompensa dei discepoli perché si innamoreranno di Dio e del vangelo ed a loro volta diventeranno profeti e discepoli!
Basterà solo un bicchiere d’acqua perché Dio, pur essendo esigente, si accontenta del mio poco: Egli sa che quel poco salverà me ed il mondo intero!
Matteo rivolge queste parole alla sua comunità, una comunità di uomini e donne provenienti dal popolo ebraico, che avevano accolto e seguito il messaggio di Gesù considerato eretico nel mondo giudaico; pertanto la conseguenza di questo era la condanna e l’emarginazione anche all’interno della stessa famiglia, l’incomprensione da parte dei figli o la perdita al diritto all’eredità; insomma la situazione era drammatica per molti.
Con quelle parole così dure Gesù non intende contrapporre l’amore verso Dio all’amore verso i propri familiari, ma vuole riproporre la radicalità che la sequela di Cristo richiede. Questo tema era molto chiaro ai cristiani: di fronte a loro vi erano soltanto due vie, quella del bene e quella del male, o Dio o Mammonà! Ora per molti scegliere Cristo voleva dire rompere anche i legami familiari.
Quelle parole “non è degno di me” sono il richiamo ad un rapporto esclusivo con Dio, così come quelle ascoltate da Mosè sul monte Sinai: “Non avrai altri dèi di fronte a me […] Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20,3.5).
Quella di Gesù non è una classifica degli affetti per la quale l’amore di Dio dovrebbe superare tutti gli altri, ma l’affermazione di un Dio capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere. Non viene sminuito l’amore umano, di paternità, maternità o figliolanza, di innamoramento o di passione, ma viene visto come un riflesso dell’infinito amore di Dio. L’amore di Dio non è diverso dall’amore umano, ma ne è il prototipo, l’evoluzione: ogni affetto umano è testimonianza e annuncio, dell’unico amore di Dio.
Oggi siamo chiamati a scegliere, siamo chiamati a dire il nostro sì a Dio, un sì forte, definitivo; guardandomi attorno vedo sempre più spesso persone che vivono di scelte con un orizzonte temporale molto limitato anche su scelte e temi che invece chiamano all’eternità come l’amore sponsale: “Oggi ti amo, domani chissà! Viviamo il presente!”
Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli ossequiosi, ma amanti innamorati e per tutti coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.
Una seconda affermazione mi colpisce: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me!”. Qui il problema nasce dall’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza; se così fosse una affermazione del genere potrebbe indicare un atteggiamento masochista del discepolo ma non è così. La croce non è segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio, uno strumento certamente paradossale perché rappresenta una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato, ma domandiamoci: come potrebbe quel Dio che è Padre/Madre amorevole proporre ai propri figli la strada della sofferenza e della tortura subita ed accolta come via di salvezza?
Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé. Seguire Gesù significa vivere secondo il progetto di Dio, aprirsi al dono della propria vita ed allora accogliere la croce significa entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita per ritrovarne il senso, quello vero, pieno ed eterno.
Nella seconda parte il tono cambia perché il discepolo non avrà di fronte a sé solo l’incomprensione e la persecuzione, ma incontrerà nel mondo anche e soprattutto la gioia di essere accolto: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Accogliere il discepolo significa accogliere lo stesso Signore, accogliere il suo vangelo, accogliere l’incredibile stupenda notizia di un Dio che ci ama alla follia e che ci invita ad amare perché solo così la nostra vita avrà la sua vera e piena realizzazione! Così coloro che ci accoglieranno come profeti di un mondo nuovo avranno la ricompensa dei profeti e coloro che ci accoglieranno come discepoli dell’amore avranno la ricompensa dei discepoli perché si innamoreranno di Dio e del vangelo ed a loro volta diventeranno profeti e discepoli!
Basterà solo un bicchiere d’acqua perché Dio, pur essendo esigente, si accontenta del mio poco: Egli sa che quel poco salverà me ed il mondo intero!
Commento 28 giugno 2020
Il brano di oggi è la conclusione del discorso missionario che occupa il decimo capitolo del vangelo di Matteo: Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la bella notizia di un Dio che ama infinitamente le sue creature, li avverte che questo messaggio non sarà accolto con gioia dagli uomini e cha ci saranno persecuzioni, incoraggiandoli a vivere senza timore perché sono preziosi agli occhi di Dio; quindi Gesù chiama i suoi discepoli ad una scelta radicale per essere degni di Lui, le parole di Gesù sono molto severe e dure, infatti non sono possibili atteggiamenti tiepidi
“Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me non è degno di me!”. Sono parole tanto tremende che se non vengono contestualizzate nella comunità a cui Matteo scrive il suo vangelo risultano incomprensibili soprattutto se messe in relazione al comandamento dell’amore, un comandamento che deve avere come oggetto anche il nemico se fosse necessario. Come può, infatti, chi mi chiama all’amore per i nemici nello stesso tempo annullare i miei più cari affetti in questo mondo?
Matteo scrive ad una comunità di ebrei che avevano seguito il messaggio di Gesù considerato eretico nel mondo giudaico; la conseguenza era l’emarginazione anche all’interno della stessa famiglia, l’incomprensione da parte dei figli o la perdita al diritto all’eredità e la situazione era drammatica per molti. Succede anche oggi: mi viene in mente quanto successo alcune settimane fa, quando dopo la sua liberazione Silvia Romano, volontaria di una organizzazione non governativa, ha annunciato di essersi convertita alla religione islamica: quanto odio nei suoi confronti è stato espresso da giornalisti e parlamentari pronti ad indicarla come una terrorista per la quale non sarebbe valsa la pena di spendere i soldi per il riscatto; mi chiedo se queste persone si siano rese conto che stavano parlando di una persona! Quanto odio nasce nei cuori quando uno dei “nostri” passa dall’altra parte!
In questo contesto Matteo ricorda le parole di Gesù ai discepoli: non si intende certamente contrapporre l’amore verso i propri familiari con l’amore verso Dio, ma si vuole riproporre la radicalità che la sequela di Cristo richiede. Questo era molto chiaro ai cristiani: di fronte a loro vi erano soltanto due vie, quella del bene e quella del male, o Dio o Mammonà!
Si comprende che quel “non è degno di me” è solo il richiamo ad un rapporto esclusivo con Dio, Egli infatti donando le dieci parole della libertà a Mosè sul Sinai disse: “Non avrai altri dèi di fronte a me […] Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20,3.5).
Gesù non fa una classifica degli affetti, ma afferma che è capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere; non viene, pertanto, sminuito l’amore umano, di paternità e maternità o figliolanza, di innamoramento o di passione, ma viene visto come il riflesso dell’unico grande amore di Dio. L’amore di Dio non è più nobile dell’amore umano, ne è l’evoluzione: ogni affetto umano è annuncio da un lato e caparra dall’altro dell’unico amore di Dio.
Allora oggi siamo chiamati a scegliere, siamo chiamati a dire il nostro sì a Dio, un sì forte, definitivo, anche se è particolarmente ostico; infatti si vive al momento, ogni scelta ha un orizzonte temporale molto limitato anche su scelte e temi che invece chiamano all’eternità come l’amore sponsale: oggi ti sposo perché ti amo, domani si vedrà! Ai miei ragazzi spesso ricordo una frase di mons. Tonini a Bruno Vespa che gli chiedeva su come vivesse la sua castità; a quella domanda provocatoria il cardinal Tonini rispose: “È molto semplice, lei sposandosi ha rinunciato a tutte le donne tranne sua moglie, io ho rinunciato anche a lei!”.
Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli, ma amanti innamorati e per coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.
Ed ancora: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me!”: qui il problema nasce da un’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza ed in questo senso la croce potrebbe indicare un atteggiamento masochista ma non è così; la croce non è segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio; uno strumento certamente paradossale perché la croce rappresenta una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato. Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé.
Seguire Gesù significa vivere secondo il progetto di Dio, aprirsi al dono della propria vita; accogliere la croce significa entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita per ritrovarne il senso, quello vero, pieno ed eterno.
“Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me non è degno di me!”. Sono parole tanto tremende che se non vengono contestualizzate nella comunità a cui Matteo scrive il suo vangelo risultano incomprensibili soprattutto se messe in relazione al comandamento dell’amore, un comandamento che deve avere come oggetto anche il nemico se fosse necessario. Come può, infatti, chi mi chiama all’amore per i nemici nello stesso tempo annullare i miei più cari affetti in questo mondo?
Matteo scrive ad una comunità di ebrei che avevano seguito il messaggio di Gesù considerato eretico nel mondo giudaico; la conseguenza era l’emarginazione anche all’interno della stessa famiglia, l’incomprensione da parte dei figli o la perdita al diritto all’eredità e la situazione era drammatica per molti. Succede anche oggi: mi viene in mente quanto successo alcune settimane fa, quando dopo la sua liberazione Silvia Romano, volontaria di una organizzazione non governativa, ha annunciato di essersi convertita alla religione islamica: quanto odio nei suoi confronti è stato espresso da giornalisti e parlamentari pronti ad indicarla come una terrorista per la quale non sarebbe valsa la pena di spendere i soldi per il riscatto; mi chiedo se queste persone si siano rese conto che stavano parlando di una persona! Quanto odio nasce nei cuori quando uno dei “nostri” passa dall’altra parte!
In questo contesto Matteo ricorda le parole di Gesù ai discepoli: non si intende certamente contrapporre l’amore verso i propri familiari con l’amore verso Dio, ma si vuole riproporre la radicalità che la sequela di Cristo richiede. Questo era molto chiaro ai cristiani: di fronte a loro vi erano soltanto due vie, quella del bene e quella del male, o Dio o Mammonà!
Si comprende che quel “non è degno di me” è solo il richiamo ad un rapporto esclusivo con Dio, Egli infatti donando le dieci parole della libertà a Mosè sul Sinai disse: “Non avrai altri dèi di fronte a me […] Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20,3.5).
Gesù non fa una classifica degli affetti, ma afferma che è capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere; non viene, pertanto, sminuito l’amore umano, di paternità e maternità o figliolanza, di innamoramento o di passione, ma viene visto come il riflesso dell’unico grande amore di Dio. L’amore di Dio non è più nobile dell’amore umano, ne è l’evoluzione: ogni affetto umano è annuncio da un lato e caparra dall’altro dell’unico amore di Dio.
Allora oggi siamo chiamati a scegliere, siamo chiamati a dire il nostro sì a Dio, un sì forte, definitivo, anche se è particolarmente ostico; infatti si vive al momento, ogni scelta ha un orizzonte temporale molto limitato anche su scelte e temi che invece chiamano all’eternità come l’amore sponsale: oggi ti sposo perché ti amo, domani si vedrà! Ai miei ragazzi spesso ricordo una frase di mons. Tonini a Bruno Vespa che gli chiedeva su come vivesse la sua castità; a quella domanda provocatoria il cardinal Tonini rispose: “È molto semplice, lei sposandosi ha rinunciato a tutte le donne tranne sua moglie, io ho rinunciato anche a lei!”.
Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli, ma amanti innamorati e per coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.
Ed ancora: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me!”: qui il problema nasce da un’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza ed in questo senso la croce potrebbe indicare un atteggiamento masochista ma non è così; la croce non è segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio; uno strumento certamente paradossale perché la croce rappresenta una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato. Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé.
Seguire Gesù significa vivere secondo il progetto di Dio, aprirsi al dono della propria vita; accogliere la croce significa entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita per ritrovarne il senso, quello vero, pieno ed eterno.
Commento 2 luglio 2017
Gesù sta vivendo un momento critico della sua vita poiché per la prima volta entra in conflitto con i leader religiosi del suo popolo che non capiscono e travisano completamente il suo messaggio; in questo clima Gesù ribadisce alcune scelte senza le quali non è possibile iniziare un percorso alla sua sequela.
Essere degni di lui vuol dire amarlo con un amore più grande di ogni altro affetto umano ed essere disponibili a prendere la propria croce.
Iniziamo col dire che, forse, all’interno del vangelo non esistono brani più fraintesi di questi versetti e, scusandomi per le divagazioni esegetiche, vorrei provare a capire insieme!
“Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me non è degno di me”: qui non si intende certamente contrapporre l’amore verso i propri familiari con l’amore verso Dio. In greco esistono diversi termini per indicare il rapporto affettivo, qui, ad esempio si parla di “philia” che è il rapporto di amicizia, l’affetto umano che lega due persone. La “philia” è il secondo grado dell’amore poiché ne esiste uno più grande, l’“agape”, che proviene da Dio e ci permette di amare Dio, un amore incondizionato e libero, capace di donarsi completamente; un tale amore verso Dio crea rapporti spirituali tra gli uomini a volte più forti degli stessi rapporti di parentela.
Gesù non fa una classifica degli affetti, ma afferma che è capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere; non viene, pertanto, sminuito l’amore umano, di paternità e maternità, di innamoramento o di passione, ma viene visto come il riflesso dell’unico grande amore di Dio. L’amore di Dio non è più nobile dell’amore umano, ne è l’evoluzione: ogni affetto umano è annuncio da un lato e caparra dall’altro dell’unico amore di Dio. Nell’amore che mi lega a mia moglie scopro ogni giorno che è possibile vivere un amore più grande accogliendo Gesù. Sappiamo, infatti, che solo l’amore di Dio potrà colmare quel vuoto che a volte ci prende nei nostri rapporti d’amore umani e questa consapevolezza ci aiuterà a vivere i nostri affetti nella prospettiva dell’infinito e dell’eternità. Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli, ma amanti innamorati.
“Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”: qui il problema nasce da un’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza. Prendere la croce potrebbe indicare un atteggiamento masochista ma non è così, per i primi cristiani la croce non era segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio; uno strumento certamente paradossale perché la croce rappresentava una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato. Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé; allora portare, accogliere la croce significa vivere secondo il progetto di Dio senza temere il giudizio degli altri e la vergogna che può nascerne, testimoniando che solo l’amore può dare senso alla vita.
In questo modo il cristiano fa di quel crocifisso il suo vanto: “Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. (1Cor 1,23-25)
Conclude Gesù: “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.” Seguire Gesù significa aprirsi al dono della propria vita ed entrare nella logica della croce è entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita.
Per coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.
Essere degni di lui vuol dire amarlo con un amore più grande di ogni altro affetto umano ed essere disponibili a prendere la propria croce.
Iniziamo col dire che, forse, all’interno del vangelo non esistono brani più fraintesi di questi versetti e, scusandomi per le divagazioni esegetiche, vorrei provare a capire insieme!
“Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me non è degno di me”: qui non si intende certamente contrapporre l’amore verso i propri familiari con l’amore verso Dio. In greco esistono diversi termini per indicare il rapporto affettivo, qui, ad esempio si parla di “philia” che è il rapporto di amicizia, l’affetto umano che lega due persone. La “philia” è il secondo grado dell’amore poiché ne esiste uno più grande, l’“agape”, che proviene da Dio e ci permette di amare Dio, un amore incondizionato e libero, capace di donarsi completamente; un tale amore verso Dio crea rapporti spirituali tra gli uomini a volte più forti degli stessi rapporti di parentela.
Gesù non fa una classifica degli affetti, ma afferma che è capace di donare a tutti noi un amore infinito e totale, più grande di tutti quelli che, umanamente, potremmo riuscire a vivere; non viene, pertanto, sminuito l’amore umano, di paternità e maternità, di innamoramento o di passione, ma viene visto come il riflesso dell’unico grande amore di Dio. L’amore di Dio non è più nobile dell’amore umano, ne è l’evoluzione: ogni affetto umano è annuncio da un lato e caparra dall’altro dell’unico amore di Dio. Nell’amore che mi lega a mia moglie scopro ogni giorno che è possibile vivere un amore più grande accogliendo Gesù. Sappiamo, infatti, che solo l’amore di Dio potrà colmare quel vuoto che a volte ci prende nei nostri rapporti d’amore umani e questa consapevolezza ci aiuterà a vivere i nostri affetti nella prospettiva dell’infinito e dell’eternità. Essere discepoli di Cristo vuol dire essere persone innamorate, poiché Dio non cerca fedeli, ma amanti innamorati.
“Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”: qui il problema nasce da un’idea sbagliata che si ha della croce, identificata troppo spesso con la sofferenza. Prendere la croce potrebbe indicare un atteggiamento masochista ma non è così, per i primi cristiani la croce non era segno di sofferenza, ma strumento della salvezza donata da Dio; uno strumento certamente paradossale perché la croce rappresentava una morte ignominiosa, capace di creare imbarazzo e vergogna anche nei parenti del condannato. Dio non vuole che sopportiamo le croci ma che le superiamo rendendole il luogo dell’amore e del dono di sé; allora portare, accogliere la croce significa vivere secondo il progetto di Dio senza temere il giudizio degli altri e la vergogna che può nascerne, testimoniando che solo l’amore può dare senso alla vita.
In questo modo il cristiano fa di quel crocifisso il suo vanto: “Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. (1Cor 1,23-25)
Conclude Gesù: “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.” Seguire Gesù significa aprirsi al dono della propria vita ed entrare nella logica della croce è entrare nella logica del dono pieno e totale di sé stessi, in cui perdi, regali la tua vita.
Per coloro che sono disposti a fare esperienza di discepolato, gli affetti umani vengono riletti, lo ripeto, non ridimensionati, alla luce dell’esperienza dell’amore di Dio e così i momenti di prova entrano a far parte di un percorso più grande, quello della testimonianza dei figli di Dio.