XXVII domenica T.O. Anno A
Vangelo Mt 21,33-43
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Commento 8 ottobre 2023
Una parabola inquietante quella di oggi, priva di sentimenti buoni e di dolcezza, un racconto pieno di violenza e grondante sangue, che urta le nostre orecchie che non vorrebbero più sentire notizie di questo genere, notizie di cui sono pieni i nostri giornali; una parabola che è un crescendo di dolore senza un lieto fine. E poi quella domanda rivolta ai sacerdoti e agli anziani, quelle stesse persone che probabilmente avevano già deciso in cuor loro di uccidere quell’uomo che stava parlando con loro, figlio del Padrone della vigna, cioè di comportarsi esattamente come quei vignaioli omicidi, protagonisti del racconto.
“Cosa farà il padrone?”: ancora una domanda al centro del vangelo di oggi. Se domenica scorsa Gesù aveva chiesto ai sacerdoti e agli anziani di essere giudici tra il comportamento dei due figli, oggi chiede agli stessi interlocutori come si sarebbero comportati in quella situazione drammatica che aveva appena raccontato loro. Il nostro Dio non giudica, il nostro, Dio non condanna, lascia a noi che ci sentiamo pieni delle nostre sicurezze vuote il ruolo di giudici e carnefici vendicatori: Dio è incapace di tutto questo, Dio ama e basta!
Per la terza volta Gesù torna ad usare l’immagine della vigna in un crescendo drammatico, dove il conflitto tra Dio e il suo popolo si acuisce! Dal mormorio di protesta degli operai della prima ora trattati allo stesso modo di coloro che avevano lavorato un’ora soltanto, all’atteggiamento del figlio, che onora ed obbedisce al Padre solo a parole, per poi non collaborare con lui nel lavoro concreto; ecco oggi la violenza e l’omicidio dei vignaioli che si ribellano al padrone e pretendono di tenere per sé la vigna.
È chiaro a tutti, credo il significato simbolico della vigna, anche perché ce lo avranno ripetuto in più occasioni in queste settimane, ma oggi occorre prestare attenzione perché troppo facilmente potremmo cadere in una lettura antisemita di questa parabola per condannare i “perfidi ebrei” che non hanno saputo riconoscere il Messia e che lo hanno rifiutato condannandolo alla croce.
Sebbene sia vero che Gesù in quel preciso momento stava parlando alle autorità religiose del tempo, dobbiamo ricordarci sempre che il vangelo parla a noi oggi e qui! E se parla a noi che siamo chiamati a lavorare nella sua vigna, vuol dire che noi rischiamo di essere quei vignaioli!
Per comprendere al meglio il testo di oggi è necessario richiamare il “canto della vigna” di Isaia 5 che la liturgia ci propone oggi come prima lettura e così entrare nel senso simbolico della vigna, immagine che rappresenta il popolo di Dio e del padrone, Dio, che, come buon contadino, si prende cura di questa sua vigna: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità di questo mondo e mantenerla ferma nella logica dell’amore, capace di superare ogni egoismo umano; “costruisce il torchio”, per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono, simbolo della gioia e della festa, e “una torre”, perché, salendovi sopra, quella vigna sia sempre sotto il suo sguardo amorevole che vigila e custodisce.
Il problema nel racconto di Isaia nasce quando arriva il tempo della vendemmia perché i frutti non sono quelli che il Signore attendeva, egli cercava uva succulenta ed ecco invece acini acerbi, “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7). Sì, il Signore si aspettava frutti di condivisione, amore, accoglienza ed ecco invece una serie di pratiche religiose solo esteriori senza coinvolgimento affettivo. Basta sfogliare i libri dei profeti per rendersi conto come i profeti richiamassero il popolo non a liturgie perfette o olocausti preziosi ma a fare il bene, a cercare la giustizia, a soccorrere l’oppresso a rendere giustizia all’orfano, a difendere la causa della vedova (Is 1,17).
La storia non cambia perché Dio insiste nella sua misericordia ed ancora oggi, come allora ai figli di Israele, con amorevole premura Dio manda i suoi profeti alla Chiesa perché la richiamino ad una vita più evangelica, mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere.
Come i profeti di allora ancora oggi si alzano voci tra i discepoli di Cristo: esse denunciano una religiosità ipocrita che tranquillizza le coscienze ma non invita ad una vera conversione, mettono in risalto l’inconsistenza di certe pratiche devozionali e di certe tradizioni che non hanno alcun aggancio con la parola di Dio e non convertono i cuori. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nell’indifferenza per poi riconoscere la loro grandezza solo dopo la loro morte: don Lorenzo Milani, Don Primo Mazzolari, monsignor Oscar Romero, don Tonino Bello. Eppure vi sono alcuni criteri chiari per riconoscere questi profeti: in primo luogo gli inviati del Signore non cercano mai vantaggi personali, non agiscono per ottenere riconoscimenti e le loro parole sono sempre dettate unicamente da una grande passione per la causa del vangelo; in secondo luogo i profeti sono sempre schierati dalla parte degli ultimi, hanno sempre problemi con le strutture di potere politiche e religiose quando sono espressione di potere e non di servizio alla comunità, i loro richiami sono sempre centrati sui frutti che il Signore si aspetta: l’amore, la fratellanza, la giustizia, l’attenzione al povero; infine i profeti sono sempre disposti a pagare le loro posizioni di persona, rimanendo coerenti in ogni momento.
Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono e, accecati da un’inestinguibile sete di potere, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”.
Anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio o così nel nostro cuore pensiamo, dobbiamo chiederci se è davvero così o se rischiamo ogni momento di “cacciarlo fuori”, quando annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio.
Eppure Dio non si arrende, torna davanti alla porta del nostro cuore per bussare con materna insistenza con altri profeti, con nuovi servitori affinché quella porta torni ad aprirsi.
Si conclude la parabola e rimane solo una domanda: “Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?”. La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, umana, una vendetta esemplare per poi affidare la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non ha pensieri umani, non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo che altro non è che un nuovo modo di vedere Dio: la storia della salvezza tra l’amore di Dio ed il tradimento dell’uomo non si conclude con un fallimento e una vendetta, ma con una vigna nuova: “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”. C’è grande conforto in queste parole: i miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio, ad ostacolare un percorso già segnato; il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà quel regno d’amore che Dio ha da sempre sognato e voluto. Ciò che Dio si aspetta da me, da ciascuno di noi non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia una battaglia di potere, ma produca una vendemmia di bontà e frutti di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.
“Cosa farà il padrone?”: ancora una domanda al centro del vangelo di oggi. Se domenica scorsa Gesù aveva chiesto ai sacerdoti e agli anziani di essere giudici tra il comportamento dei due figli, oggi chiede agli stessi interlocutori come si sarebbero comportati in quella situazione drammatica che aveva appena raccontato loro. Il nostro Dio non giudica, il nostro, Dio non condanna, lascia a noi che ci sentiamo pieni delle nostre sicurezze vuote il ruolo di giudici e carnefici vendicatori: Dio è incapace di tutto questo, Dio ama e basta!
Per la terza volta Gesù torna ad usare l’immagine della vigna in un crescendo drammatico, dove il conflitto tra Dio e il suo popolo si acuisce! Dal mormorio di protesta degli operai della prima ora trattati allo stesso modo di coloro che avevano lavorato un’ora soltanto, all’atteggiamento del figlio, che onora ed obbedisce al Padre solo a parole, per poi non collaborare con lui nel lavoro concreto; ecco oggi la violenza e l’omicidio dei vignaioli che si ribellano al padrone e pretendono di tenere per sé la vigna.
È chiaro a tutti, credo il significato simbolico della vigna, anche perché ce lo avranno ripetuto in più occasioni in queste settimane, ma oggi occorre prestare attenzione perché troppo facilmente potremmo cadere in una lettura antisemita di questa parabola per condannare i “perfidi ebrei” che non hanno saputo riconoscere il Messia e che lo hanno rifiutato condannandolo alla croce.
Sebbene sia vero che Gesù in quel preciso momento stava parlando alle autorità religiose del tempo, dobbiamo ricordarci sempre che il vangelo parla a noi oggi e qui! E se parla a noi che siamo chiamati a lavorare nella sua vigna, vuol dire che noi rischiamo di essere quei vignaioli!
Per comprendere al meglio il testo di oggi è necessario richiamare il “canto della vigna” di Isaia 5 che la liturgia ci propone oggi come prima lettura e così entrare nel senso simbolico della vigna, immagine che rappresenta il popolo di Dio e del padrone, Dio, che, come buon contadino, si prende cura di questa sua vigna: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità di questo mondo e mantenerla ferma nella logica dell’amore, capace di superare ogni egoismo umano; “costruisce il torchio”, per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono, simbolo della gioia e della festa, e “una torre”, perché, salendovi sopra, quella vigna sia sempre sotto il suo sguardo amorevole che vigila e custodisce.
Il problema nel racconto di Isaia nasce quando arriva il tempo della vendemmia perché i frutti non sono quelli che il Signore attendeva, egli cercava uva succulenta ed ecco invece acini acerbi, “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7). Sì, il Signore si aspettava frutti di condivisione, amore, accoglienza ed ecco invece una serie di pratiche religiose solo esteriori senza coinvolgimento affettivo. Basta sfogliare i libri dei profeti per rendersi conto come i profeti richiamassero il popolo non a liturgie perfette o olocausti preziosi ma a fare il bene, a cercare la giustizia, a soccorrere l’oppresso a rendere giustizia all’orfano, a difendere la causa della vedova (Is 1,17).
La storia non cambia perché Dio insiste nella sua misericordia ed ancora oggi, come allora ai figli di Israele, con amorevole premura Dio manda i suoi profeti alla Chiesa perché la richiamino ad una vita più evangelica, mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere.
Come i profeti di allora ancora oggi si alzano voci tra i discepoli di Cristo: esse denunciano una religiosità ipocrita che tranquillizza le coscienze ma non invita ad una vera conversione, mettono in risalto l’inconsistenza di certe pratiche devozionali e di certe tradizioni che non hanno alcun aggancio con la parola di Dio e non convertono i cuori. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nell’indifferenza per poi riconoscere la loro grandezza solo dopo la loro morte: don Lorenzo Milani, Don Primo Mazzolari, monsignor Oscar Romero, don Tonino Bello. Eppure vi sono alcuni criteri chiari per riconoscere questi profeti: in primo luogo gli inviati del Signore non cercano mai vantaggi personali, non agiscono per ottenere riconoscimenti e le loro parole sono sempre dettate unicamente da una grande passione per la causa del vangelo; in secondo luogo i profeti sono sempre schierati dalla parte degli ultimi, hanno sempre problemi con le strutture di potere politiche e religiose quando sono espressione di potere e non di servizio alla comunità, i loro richiami sono sempre centrati sui frutti che il Signore si aspetta: l’amore, la fratellanza, la giustizia, l’attenzione al povero; infine i profeti sono sempre disposti a pagare le loro posizioni di persona, rimanendo coerenti in ogni momento.
Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono e, accecati da un’inestinguibile sete di potere, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”.
Anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio o così nel nostro cuore pensiamo, dobbiamo chiederci se è davvero così o se rischiamo ogni momento di “cacciarlo fuori”, quando annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio.
Eppure Dio non si arrende, torna davanti alla porta del nostro cuore per bussare con materna insistenza con altri profeti, con nuovi servitori affinché quella porta torni ad aprirsi.
Si conclude la parabola e rimane solo una domanda: “Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?”. La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, umana, una vendetta esemplare per poi affidare la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non ha pensieri umani, non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo che altro non è che un nuovo modo di vedere Dio: la storia della salvezza tra l’amore di Dio ed il tradimento dell’uomo non si conclude con un fallimento e una vendetta, ma con una vigna nuova: “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”. C’è grande conforto in queste parole: i miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio, ad ostacolare un percorso già segnato; il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà quel regno d’amore che Dio ha da sempre sognato e voluto. Ciò che Dio si aspetta da me, da ciascuno di noi non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia una battaglia di potere, ma produca una vendemmia di bontà e frutti di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.
Commento 4 ottobre 2020
Per la terza volta Gesù torna ad usare l’immagine della vigna in un crescendo drammatico, dove il conflitto tra Dio e il suo popolo si acuisce! Dal mormorio di protesta degli operai della prima ora trattati allo stesso modo di coloro che avevano lavorato un’ora soltanto, all’atteggiamento del figlio, che onora ed obbedisce al Padre solo a parole, per poi non collaborare con lui nel lavoro concreto; ecco oggi la violenza e l’omicidio dei vignaioli che si ribellano al padrone e pretendono di tenere per sé la vigna.
Ormai credo sia chiaro a tutti il significato dell’immagine della vigna che va a rappresentare il popolo, la comunità voluta dal Signore, ma una lettura antisemita contro i “perfidi ebrei” che non hanno saputo riconoscere il Messia e lo hanno rifiutato condannandolo alla croce sia un errore. Se Gesù in quel preciso momento stava parlando alle autorità religiose del tempo, oggi parla a noi che siamo chiamati a lavorare nella sua vigna, a noi che siamo quei vignaioli!
Attraverso la prima lettura (Is 5) ed il salmo 79 entriamo nel senso simbolico dell’immagine della vigna, che rappresenta il popolo di Dio; di questa vigna il Signore si prende cura: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità pagana chiudendo la sua vigna nella logica dell’amore, “costruisce il torchio” per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono che è simbolo della gioia e della festa, “costruisce una torre” per guardare e proteggere la sua vigna ed è simbolo di quello sguardo amorevole del Padre che vigila e custodisce il suo popolo; poi arriva il periodo dei frutti, ma questi non arrivano o meglio non sono quelli che il Signore attendeva, non uva, ma acini acerbi: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7). Il vero rapporto con Dio è contrassegnato da altri frutti: basta sfogliare i libri dei profeti per rendersi conto come i profeti richiamassero il popolo non a liturgie perfette o olocausti preziosi ma a fare il bene, a cercare la giustizia, a soccorrere l’oppresso a rendere giustizia all’orfano, a difendere la causa della vedova (Is 1,17). Come allora ai figli di Israele così oggi con amorevole premura Dio manda i suoi profeti alla Chiesa perché la richiamino ad una vita più evangelica, mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere. Come allora i profeti di oggi denunciano una religiosità ipocrita che tranquillizza le coscienze ma non invita ad una vera conversione, mettono in risalto l’inconsistenza di certe pratiche devozionali e di certe tradizioni che non hanno alcun aggancio con la parola di Dio e non convertono i cuori. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nell’indifferenza e solo dopo la loro morte li ha riconosciuti: Milani, Mazzolari, Oscar Romero, Turoldo, Tonino Bello, Roger Shutz…
Esistono alcuni criteri per riconoscere questi profeti: in primo luogo gli inviati del Signore non cercano mai vantaggi personali, non agiscono per ottenere riconoscimenti e le loro parole sono sempre dettate unicamente da una grande passione per la causa del vangelo; in secondo luogo i profeti sono sempre schierati dalla parte degli ultimi, hanno sempre problemi con le strutture di potere politiche e religiose quando sono espressione di potere e non di servizio alla comunità, i loro richiami sono sempre centrati sui frutti che il Signore si aspetta: l’amore, la fratellanza, la giustizia, l’attenzione al povero; infine i profeti sono sempre disposti a pagare le loro posizioni di persona, rimanendo coerenti in ogni momento.
Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”.
Attenzione questo richiamo riguarda anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio, perché corriamo il rischio di “cacciarlo fuori” nel momento in cui annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio. Eppure come è bello e confortante vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di meraviglie e ricomincia dopo ogni tradimento ad assediare di nuovo il cuore dei suoi figli, con altri profeti, con nuovi servitori, con il Figlio e, infine, anche con le pietre scartate.
Conclude la parabola: «Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?» La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, una vendetta esemplare e poi darà la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo: la storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”: c’è grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà regno dell’amore di Dio. Ciò che Dio si aspetta non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.
Ormai credo sia chiaro a tutti il significato dell’immagine della vigna che va a rappresentare il popolo, la comunità voluta dal Signore, ma una lettura antisemita contro i “perfidi ebrei” che non hanno saputo riconoscere il Messia e lo hanno rifiutato condannandolo alla croce sia un errore. Se Gesù in quel preciso momento stava parlando alle autorità religiose del tempo, oggi parla a noi che siamo chiamati a lavorare nella sua vigna, a noi che siamo quei vignaioli!
Attraverso la prima lettura (Is 5) ed il salmo 79 entriamo nel senso simbolico dell’immagine della vigna, che rappresenta il popolo di Dio; di questa vigna il Signore si prende cura: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità pagana chiudendo la sua vigna nella logica dell’amore, “costruisce il torchio” per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono che è simbolo della gioia e della festa, “costruisce una torre” per guardare e proteggere la sua vigna ed è simbolo di quello sguardo amorevole del Padre che vigila e custodisce il suo popolo; poi arriva il periodo dei frutti, ma questi non arrivano o meglio non sono quelli che il Signore attendeva, non uva, ma acini acerbi: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7). Il vero rapporto con Dio è contrassegnato da altri frutti: basta sfogliare i libri dei profeti per rendersi conto come i profeti richiamassero il popolo non a liturgie perfette o olocausti preziosi ma a fare il bene, a cercare la giustizia, a soccorrere l’oppresso a rendere giustizia all’orfano, a difendere la causa della vedova (Is 1,17). Come allora ai figli di Israele così oggi con amorevole premura Dio manda i suoi profeti alla Chiesa perché la richiamino ad una vita più evangelica, mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere. Come allora i profeti di oggi denunciano una religiosità ipocrita che tranquillizza le coscienze ma non invita ad una vera conversione, mettono in risalto l’inconsistenza di certe pratiche devozionali e di certe tradizioni che non hanno alcun aggancio con la parola di Dio e non convertono i cuori. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nell’indifferenza e solo dopo la loro morte li ha riconosciuti: Milani, Mazzolari, Oscar Romero, Turoldo, Tonino Bello, Roger Shutz…
Esistono alcuni criteri per riconoscere questi profeti: in primo luogo gli inviati del Signore non cercano mai vantaggi personali, non agiscono per ottenere riconoscimenti e le loro parole sono sempre dettate unicamente da una grande passione per la causa del vangelo; in secondo luogo i profeti sono sempre schierati dalla parte degli ultimi, hanno sempre problemi con le strutture di potere politiche e religiose quando sono espressione di potere e non di servizio alla comunità, i loro richiami sono sempre centrati sui frutti che il Signore si aspetta: l’amore, la fratellanza, la giustizia, l’attenzione al povero; infine i profeti sono sempre disposti a pagare le loro posizioni di persona, rimanendo coerenti in ogni momento.
Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”.
Attenzione questo richiamo riguarda anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio, perché corriamo il rischio di “cacciarlo fuori” nel momento in cui annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio. Eppure come è bello e confortante vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di meraviglie e ricomincia dopo ogni tradimento ad assediare di nuovo il cuore dei suoi figli, con altri profeti, con nuovi servitori, con il Figlio e, infine, anche con le pietre scartate.
Conclude la parabola: «Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?» La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, una vendetta esemplare e poi darà la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo: la storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”: c’è grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà regno dell’amore di Dio. Ciò che Dio si aspetta non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.
Commento 8 ottobre 2017
Si conclude oggi il trittico delle parabole sulla vigna: in una escalation crudele il conflitto tra Dio e il suo popolo si acuisce! Dal mormorio di protesta degli operai della prima ora, che non riconoscono la paga della salvezza a coloro che per ultimi erano entrati nella vigna, attraverso l’atteggiamento del figlio, che onora ed obbedisce al Padre solo a parole, per poi non collaborare con lui nel lavoro concreto, giungiamo oggi alla violenza e all’omicidio dei vignaioli che pretendono di tenere per sé la vigna.
A partire dal celebre canto di Is 5 (prima lettura) e dal salmo 79 (80), di fronte all’immagine della vigna l’israelita capiva subito che si stava parlando del popolo di Dio; di questa vigna il Signore si prende cura: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità pagana chiudendo la sua vigna nella logica dell’amore, “costruisce il torchio” per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono che è simbolo della gioia e della festa, “costruisce una torre” per guardare e proteggere la sua vigna ed è simbolo di quello sguardo amorevole del Padre che vigila e custodisce il suo popolo; poi arriva il periodo dei frutti, ma questi non arrivano o meglio non sono quelli che il Signore attendeva, non uva, ma acini acerbi: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7)
Quella vigna è il popolo di Dio e se, allora la parabola di Gesù riguardava Israele, oggi interpella anche la comunità cristiana, nuovo popolo di Dio. A noi, comunità cristiana, in tutti i tempi ed oggi, il Signore continua a mandare i suoi servi, profeti, che ci invitano a tornare nella logica di Dio mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nella sua indifferenza e solo dopo la loro morte li ha riconosciuti, capendo che, forse, il Signore li aveva inviati per richiamarci ad una vita più evangelica: Milani, Mazzolari, Oscar Romero, Turoldo, Tonino Bello, Roger Shutz....
Nel racconto della parabola ciò che gli operai non avevano capito nel loro egocentrismo assoluto era che la vigna erano proprio loro e il mondo intorno a loro, che il padrone chiedeva solo il frutto del loro lavoro, quel vino simbolo di gioia e di festa. Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”. Attenzione questo richiamo riguarda anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio, perché corriamo il rischio di “cacciarlo fuori” nel momento in cui annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio. Eppure come è bello e confortante vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di meraviglie e ricomincia dopo ogni tradimento ad assediare di nuovo il cuore dei suoi figli, con altri profeti, con nuovi servitori, con il Figlio e, infine, anche con le pietre scartate.
Conclude la parabola: «Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?» La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, una vendetta esemplare e poi darà la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo: la storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”: c’è grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà regno dell’amore di Dio. Ciò che Dio si aspetta non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.
A partire dal celebre canto di Is 5 (prima lettura) e dal salmo 79 (80), di fronte all’immagine della vigna l’israelita capiva subito che si stava parlando del popolo di Dio; di questa vigna il Signore si prende cura: “la circonda con la siepe” della sua Parola per proteggerla dalla mentalità pagana chiudendo la sua vigna nella logica dell’amore, “costruisce il torchio” per trasformare il frutto di quella vigna in vino buono che è simbolo della gioia e della festa, “costruisce una torre” per guardare e proteggere la sua vigna ed è simbolo di quello sguardo amorevole del Padre che vigila e custodisce il suo popolo; poi arriva il periodo dei frutti, ma questi non arrivano o meglio non sono quelli che il Signore attendeva, non uva, ma acini acerbi: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi!” (Is 5,7)
Quella vigna è il popolo di Dio e se, allora la parabola di Gesù riguardava Israele, oggi interpella anche la comunità cristiana, nuovo popolo di Dio. A noi, comunità cristiana, in tutti i tempi ed oggi, il Signore continua a mandare i suoi servi, profeti, che ci invitano a tornare nella logica di Dio mentre noi siamo sempre tentati di ragionare secondo i criteri della nostra umanità che non conosce il vino buono del vangelo e rimane assetata di denaro ed ubriaca di potere. Quanti profeti la Chiesa ha “ucciso”, rifiutandoli e isolandoli nella sua indifferenza e solo dopo la loro morte li ha riconosciuti, capendo che, forse, il Signore li aveva inviati per richiamarci ad una vita più evangelica: Milani, Mazzolari, Oscar Romero, Turoldo, Tonino Bello, Roger Shutz....
Nel racconto della parabola ciò che gli operai non avevano capito nel loro egocentrismo assoluto era che la vigna erano proprio loro e il mondo intorno a loro, che il padrone chiedeva solo il frutto del loro lavoro, quel vino simbolo di gioia e di festa. Così il padrone invia i servi e poi il figlio perché mostrino a quegli operai che il vero frutto gradito è l’amore e la gioia di collaborare con il padrone per difendere, custodire e coltivare la vigna e non il potere, le rendite di posizione; ma quei vignaioli non capiscono, “picchiano, uccidono i servi e poi ancora cacciano fuori il figlio e lo uccidono”. Attenzione questo richiamo riguarda anche noi che, pure, abbiamo accolto il Figlio, perché corriamo il rischio di “cacciarlo fuori” nel momento in cui annunciamo una religione costruita secondo i nostri criteri, sostituendo la logica di Dio, quando scendiamo a compromessi con i poteri di questo mondo, quando ragioniamo secondo il buon senso e non secondo i pensieri di Dio. Eppure come è bello e confortante vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di meraviglie e ricomincia dopo ogni tradimento ad assediare di nuovo il cuore dei suoi figli, con altri profeti, con nuovi servitori, con il Figlio e, infine, anche con le pietre scartate.
Conclude la parabola: «Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?» La soluzione proposta dai capi dei giudei è logica, una vendetta esemplare e poi darà la vigna a nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone, ma Dio non spreca la sua eternità in vendette e castighi.
Qui si introduce la novità straordinaria del Vangelo: la storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. “Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”: c’è grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo che non produce frutto non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie, così la vigna fiorirà e il mondo sarà regno dell’amore di Dio. Ciò che Dio si aspetta non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza; Egli vuole grappoli caldi d’amore e dolci di tenerezza; una storia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia e, forse, perfino acini o gocce di Dio tra noi.