Quinta domenica di quaresima Anno B
Vangelo Gv 12,20-33
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Commento 17 marzo 2024
Alcuni stranieri giungono a Gerusalemme per la Pasqua, sono proseliti, non appartengono al popolo eletto di Dio, ma in qualche modo hanno conosciuto la religione ebraica e ne sono rimasti colpiti, accogliendo la proposta di quel Dio unico, così diverso da tutti quelli del loro pantheon; infatti i loro dei non erano altro che piccoli o grandi superuomini assolutamente indifferenti alla vita, intenti solo a litigare tra di loro, a fare le loro guerre di potere nelle quali coinvolgevano gli uomini succubi e supini alla loro volontà, il Dio di Israele no, è un Dio che lotta, libera e cura il suo popolo.
Volevano probabilmente abbandonare quell’idea pagana e blasfema di un Dio spettatore e disinteressato della vita degli uomini ma pronto a giocare con la vita di questi in nome del potere, della gloria o anche solo del proprio divertimento; così avevano accolto la proposta di un Dio unico, ma non avevano ancora compiuto l’ultimo passo che li avrebbe resi veri ebrei, la circoncisione.
Giunti a Gerusalemme hanno scoperto che diversi divieti e barriere impedivano loro di accadere alla parte interna, più sacra del Tempio e chissà quanta delusione sarà sgorgata nei loro cuori dopo quel lungo viaggio.
Ora qualcuno di loro era venuto a sapere di un giovane rabbì che non solo compiva prodigi, ma annunciava un volto nuovo e misericordioso di Dio e saputo che era anche lui a Gerusalemme per la Pasqua vogliono conoscerlo. Credo che nella richiesta di quei pellegrini sia racchiuso in modo simbolico il desiderio di tutta l’umanità che aspira all’incontro con Colui che solo può salvare. Non abbiamo bisogno di fare proselitismo, basta aprire gli occhi per vedere quanti proseliti vi sono intorno a noi, quanti uomini e donne onesti cercano un senso per la loro vita, anche se ancora si sentono lontani da Dio. Mi chiedo quanti ancora oggi volgono lo sguardo a tutti noi, che ci vantiamo di essere discepoli di Gesù, per urlare il loro bisogno di incontrare un Dio, che non sia indifferente alla loro vita e che ci segua nel cammino della vita. Sono uomini e donne che non attendono altro di conoscere un Dio Amore ed attendono da noi una risposta, attendono di vedere in noi il volto di un Dio Padre/Madre che in nome dell’amore non esita a soffrire e morire per la salvezza dei propri figli. Rimane solo una domanda: troveranno in noi i Filippo e gli Andrea capaci di condurli e mostrargli Gesù?
La risposta di Gesù sembra incomprensibile e probabilmente in quel giorno di festa, nessuno ha inteso il senso di quelle parole; come ben sappiamo i vangeli furono scritti molto tempo dopo la morte e resurrezione di Gesù e forse qui Giovanni ritornando indietro con i ricordi mette in bocca a Gesù parole nuove che vogliono spiegare il senso di quella sua morte così violenta e vergognosa.
È la prima volta che Gesù nel vangelo di Giovanni annuncia il giungere di quell’ora che fino a quel momento appariva non arrivare mai: a Cana durante le nozze in risposta alla madre che gli chiedeva di provvedere perché era venuto a mancare il vino (Gv 2,4), nel tempio quando vennero per arrestarlo mentre predicava ma non lo fecero (Gv 8,20). È l’ora della glorificazione, l’ora in cui in modo sublime Gesù mostrerà il vero volto di Dio, di un Dio che ci ama “da morire”!
Nel discorso conclusivo alla folla Gesù userà le stesse parole che aveva già detto qualche anno prima a Nicodemo annunciando che da quel trono glorioso che sarà la sua croce Gesù sarà capace di attirare tutti gli uomini verso di Lui, ma che cosa si nasconde nel Crocifisso per avere questo potere di attrazione? Non è bello, non è simpatico, non è vincente, non è entusiasmante, anzi è l’esatto contrario di tutto questo, è un crocifisso, un semplice corpo, sfigurato (Cfr Is 52,14), considerato un maledetto (Dt 21,23) e moribondo.
Una cosa sola si nasconde nel Crocifisso, e nascondendosi si rivela con l’inarrestabile forza della testimonianza: l’incredibile amore di Dio per tutti e tutte!
L’amore è invisibile agli occhi, lo si può cogliere soltanto nei gesti e negli atteggiamenti di chi ci vuole bene. Per questo, in Gesù crocifisso, nella sua vita donata fino all’ultimo, possiamo percepire l’amore incondizionato ed eterno di Dio e l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere. Mentre una dottrina, una teologia dipendono dal contesto culturale e dalle sue diverse formulazioni storiche, l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere; non a caso furono proprio un ribelle ed un centurione romano a riconoscere per primi in quella morte la salvezza di Dio.
Sono sempre più convinto che cominciamo ad essere cristiani quando ci sentiamo “attratti” da Gesù, cominciamo ad intendere qualcosa della fede solo quando ci sentiamo amati da Dio. La gloria di Dio è la croce, perché è lì che posso incontrare un Dio che non chiede, ma dona, perché è lì che scopro la bella notizia di un Dio follemente innamorato di me!
Attenzione sarebbe una bestemmia affermare che Dio abbia voluto quella morte per il suo Figlio; non è la sofferenza che ci salva, ma l’amore! È l’amore che ci rende capaci di offrire per l’altro tutti noi stessi e per spiegare la forza che contiene la sua morte in croce, Gesù usa l’immagine del seme che se non muore, se rimane solo non può produrre frutto; ricordo ancora il volto del nonno quando tornava dalla semina, fatta rigorosamente a mano gettando quei semi di grano sul terreno appena arato: buttare a terra quel buon grano sembrava rattristarlo, eppure quel gesto così difficile e duro ritrovava ogni anno il suo senso nel raccolto estivo.
In queste parole di Gesù è condensato il paradosso del vangelo, il paradosso dell’amore e della vita vissuta nella logica del cuore di Dio dove morire è vivere, perdere è guadagnare, servire è potere! Spesso litigo con mia moglie per portare le buste della spesa pesanti, ma faccio tutto questo perché altrimenti non riuscirò mai a colmare tutto l’amore e tutti i doni da lei ricevuti quotidianamente. Questo sentire è l’unica regola e legge dell’amore!
Eh sì, per dare frutto, il chicco di grano deve scomparire nella terra e con questo linguaggio così chiaro, semplice e colmo di forza, Gesù lascia intravvedere che la sua morte non è una rovina, la fine di tutto, ma è ciò che dà fecondità alla sua vita ed insegna anche a noi suoi discepoli a vivere secondo questa stessa legge paradossale: per dare vita è necessario “morire”.
Ecco la necessità della passione e morte di Gesù non per espiare i nostri peccati, ma per seminare nei nostri cuori l’amore, che è vero soltanto se donato completamente all’altro senza trattenersi nulla. La morte di Gesù è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, marcire per dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga e così anche per noi, che tentiamo di essere suoi discepoli, diventa necessario morire, cadere a terra, scomparire per dare frutto; questa è la grande legge della vita e del vangelo: servire, donarsi, spendersi perché altri vivano; in fondo per passare da “io” a “Dio” non bisogna far altro che aggiungere la “D” di “donare” che poi è l’esplicitazione dell’amore!
L’ironia è che chi non vuole morire, trasformarsi, cambiare, crescere attraverso il dono di sé morirà veramente, rimarrà solo, perché non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti; morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la dura realtà della vita, ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole, sporcandosi le mani per costruire un regno di giustizia e di pace; cadere a terra vuol dire scontrarsi con le persone che non sempre sono come noi vorremmo, confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, al sapere tutto, al non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere, vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l’umiltà di riconoscerli. Tutto questo ci fa male, perché è come morire ed annienta l’immagine di “persone brave e buone” che abbiamo di noi, di persone, che, come l’uomo della pubblicità di un dopobarba di diversi anni fa, “non devono chiedere mai”!
Ma niente di nuovo, di bello, di fruttuoso può nascere, se non abbiamo il coraggio di “cadere a terra” perché la vera morte è la sterilità di chi non dona, di chi non spende la propria vita, ma vuole conservarla gelosamente per sé, perché la vita è amare, amare è servire, servire è vivere nella gioia!
Volevano probabilmente abbandonare quell’idea pagana e blasfema di un Dio spettatore e disinteressato della vita degli uomini ma pronto a giocare con la vita di questi in nome del potere, della gloria o anche solo del proprio divertimento; così avevano accolto la proposta di un Dio unico, ma non avevano ancora compiuto l’ultimo passo che li avrebbe resi veri ebrei, la circoncisione.
Giunti a Gerusalemme hanno scoperto che diversi divieti e barriere impedivano loro di accadere alla parte interna, più sacra del Tempio e chissà quanta delusione sarà sgorgata nei loro cuori dopo quel lungo viaggio.
Ora qualcuno di loro era venuto a sapere di un giovane rabbì che non solo compiva prodigi, ma annunciava un volto nuovo e misericordioso di Dio e saputo che era anche lui a Gerusalemme per la Pasqua vogliono conoscerlo. Credo che nella richiesta di quei pellegrini sia racchiuso in modo simbolico il desiderio di tutta l’umanità che aspira all’incontro con Colui che solo può salvare. Non abbiamo bisogno di fare proselitismo, basta aprire gli occhi per vedere quanti proseliti vi sono intorno a noi, quanti uomini e donne onesti cercano un senso per la loro vita, anche se ancora si sentono lontani da Dio. Mi chiedo quanti ancora oggi volgono lo sguardo a tutti noi, che ci vantiamo di essere discepoli di Gesù, per urlare il loro bisogno di incontrare un Dio, che non sia indifferente alla loro vita e che ci segua nel cammino della vita. Sono uomini e donne che non attendono altro di conoscere un Dio Amore ed attendono da noi una risposta, attendono di vedere in noi il volto di un Dio Padre/Madre che in nome dell’amore non esita a soffrire e morire per la salvezza dei propri figli. Rimane solo una domanda: troveranno in noi i Filippo e gli Andrea capaci di condurli e mostrargli Gesù?
La risposta di Gesù sembra incomprensibile e probabilmente in quel giorno di festa, nessuno ha inteso il senso di quelle parole; come ben sappiamo i vangeli furono scritti molto tempo dopo la morte e resurrezione di Gesù e forse qui Giovanni ritornando indietro con i ricordi mette in bocca a Gesù parole nuove che vogliono spiegare il senso di quella sua morte così violenta e vergognosa.
È la prima volta che Gesù nel vangelo di Giovanni annuncia il giungere di quell’ora che fino a quel momento appariva non arrivare mai: a Cana durante le nozze in risposta alla madre che gli chiedeva di provvedere perché era venuto a mancare il vino (Gv 2,4), nel tempio quando vennero per arrestarlo mentre predicava ma non lo fecero (Gv 8,20). È l’ora della glorificazione, l’ora in cui in modo sublime Gesù mostrerà il vero volto di Dio, di un Dio che ci ama “da morire”!
Nel discorso conclusivo alla folla Gesù userà le stesse parole che aveva già detto qualche anno prima a Nicodemo annunciando che da quel trono glorioso che sarà la sua croce Gesù sarà capace di attirare tutti gli uomini verso di Lui, ma che cosa si nasconde nel Crocifisso per avere questo potere di attrazione? Non è bello, non è simpatico, non è vincente, non è entusiasmante, anzi è l’esatto contrario di tutto questo, è un crocifisso, un semplice corpo, sfigurato (Cfr Is 52,14), considerato un maledetto (Dt 21,23) e moribondo.
Una cosa sola si nasconde nel Crocifisso, e nascondendosi si rivela con l’inarrestabile forza della testimonianza: l’incredibile amore di Dio per tutti e tutte!
L’amore è invisibile agli occhi, lo si può cogliere soltanto nei gesti e negli atteggiamenti di chi ci vuole bene. Per questo, in Gesù crocifisso, nella sua vita donata fino all’ultimo, possiamo percepire l’amore incondizionato ed eterno di Dio e l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere. Mentre una dottrina, una teologia dipendono dal contesto culturale e dalle sue diverse formulazioni storiche, l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere; non a caso furono proprio un ribelle ed un centurione romano a riconoscere per primi in quella morte la salvezza di Dio.
Sono sempre più convinto che cominciamo ad essere cristiani quando ci sentiamo “attratti” da Gesù, cominciamo ad intendere qualcosa della fede solo quando ci sentiamo amati da Dio. La gloria di Dio è la croce, perché è lì che posso incontrare un Dio che non chiede, ma dona, perché è lì che scopro la bella notizia di un Dio follemente innamorato di me!
Attenzione sarebbe una bestemmia affermare che Dio abbia voluto quella morte per il suo Figlio; non è la sofferenza che ci salva, ma l’amore! È l’amore che ci rende capaci di offrire per l’altro tutti noi stessi e per spiegare la forza che contiene la sua morte in croce, Gesù usa l’immagine del seme che se non muore, se rimane solo non può produrre frutto; ricordo ancora il volto del nonno quando tornava dalla semina, fatta rigorosamente a mano gettando quei semi di grano sul terreno appena arato: buttare a terra quel buon grano sembrava rattristarlo, eppure quel gesto così difficile e duro ritrovava ogni anno il suo senso nel raccolto estivo.
In queste parole di Gesù è condensato il paradosso del vangelo, il paradosso dell’amore e della vita vissuta nella logica del cuore di Dio dove morire è vivere, perdere è guadagnare, servire è potere! Spesso litigo con mia moglie per portare le buste della spesa pesanti, ma faccio tutto questo perché altrimenti non riuscirò mai a colmare tutto l’amore e tutti i doni da lei ricevuti quotidianamente. Questo sentire è l’unica regola e legge dell’amore!
Eh sì, per dare frutto, il chicco di grano deve scomparire nella terra e con questo linguaggio così chiaro, semplice e colmo di forza, Gesù lascia intravvedere che la sua morte non è una rovina, la fine di tutto, ma è ciò che dà fecondità alla sua vita ed insegna anche a noi suoi discepoli a vivere secondo questa stessa legge paradossale: per dare vita è necessario “morire”.
Ecco la necessità della passione e morte di Gesù non per espiare i nostri peccati, ma per seminare nei nostri cuori l’amore, che è vero soltanto se donato completamente all’altro senza trattenersi nulla. La morte di Gesù è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, marcire per dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga e così anche per noi, che tentiamo di essere suoi discepoli, diventa necessario morire, cadere a terra, scomparire per dare frutto; questa è la grande legge della vita e del vangelo: servire, donarsi, spendersi perché altri vivano; in fondo per passare da “io” a “Dio” non bisogna far altro che aggiungere la “D” di “donare” che poi è l’esplicitazione dell’amore!
L’ironia è che chi non vuole morire, trasformarsi, cambiare, crescere attraverso il dono di sé morirà veramente, rimarrà solo, perché non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti; morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la dura realtà della vita, ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole, sporcandosi le mani per costruire un regno di giustizia e di pace; cadere a terra vuol dire scontrarsi con le persone che non sempre sono come noi vorremmo, confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, al sapere tutto, al non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere, vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l’umiltà di riconoscerli. Tutto questo ci fa male, perché è come morire ed annienta l’immagine di “persone brave e buone” che abbiamo di noi, di persone, che, come l’uomo della pubblicità di un dopobarba di diversi anni fa, “non devono chiedere mai”!
Ma niente di nuovo, di bello, di fruttuoso può nascere, se non abbiamo il coraggio di “cadere a terra” perché la vera morte è la sterilità di chi non dona, di chi non spende la propria vita, ma vuole conservarla gelosamente per sé, perché la vita è amare, amare è servire, servire è vivere nella gioia!
Commento 21 marzo 2021
Alcuni stranieri giungono a Gerusalemme per la Pasqua; probabilmente sono “proseliti”, sono rimasti colpiti dalla religione ebraica, hanno accolto la proposta di quel Dio unico che lotta, libera e cura il suo popolo, un Dio così diverso da tutti quelli del loro pantheon. I loro dei non erano altro che piccoli o grandi superuomini assolutamente indifferenti alla vita, intenti solo a litigare tra di loro, a fare le loro guerre di potere nelle quali coinvolgevano gli uomini succubi e supini alla loro volontà. Volevano probabilmente abbandonare quella idea blasfema di un Dio spettatore disinteressato della vita degli uomini ma pronto a giocare con la vita di questi in nome del potere, della gloria o anche solo del loro divertimento. Avevano accolto la proposta di un Dio unico, ma non avevano ancora compiuto l’ultimo passo che li avrebbe resi dei veri ebrei la circoncisione, una pratica oltreché dolorosa per un adulto, ritenuta molto vergognosa nel mondo greco romano. Avevano compiuto un lungo viaggio per giungere a Gerusalemme dalle loro città poste in chissà quale parte dell’impero ed ora giunti alla meta, siccome proseliti, pur potendo entrare nel tempio diversi divieti e barriere costringevano loro a rimanere nella spianata senza poter accedere alla parte interna, più sacra, ai luoghi più vicini al “Santo dei Santi”, la casa di quel Dio che loro volevano conoscere. Probabilmente molto delusi da questi divieti si ricordarono che in quel lungo viaggio avevano sentito parlare, o forse qualcuno di loro già sapeva, di quel giovane rabbì che non solo compiva prodigi, ma annunciava un volto nuovo e misericordioso di Dio. Saputo che era anche lui a Gerusalemme per la Pasqua vogliono conoscerlo; scoppia loro in cuore un desiderio, forse per poter tornare a casa consapevoli di non aver fatto quel lungo viaggio a vuoto, “Vogliamo vedere Gesù!” Quale meravigliosa richiesta rivolgono a Filippo, quale stupenda preghiera sgorga dal loro cuore assetato di verità, di quella bella notizia che sola sa dare un senso ad una vita che sempre più sembra priva di ogni ragion d’essere. È abbastanza chiaro chi siano i “greci” del nostro tempo: sono tutti quegli uomini e quelle donne onesti che cercano un senso per la loro vita, anche se ancora si sentono lontani da Dio; mi chiedo quanti ancora oggi volgono lo sguardo a tutti noi, che ci vantiamo di essere discepoli di Gesù, per urlare il loro bisogno di incontrare un Dio, che non sia indifferente e ci segua nel cammino della vita; sono uomini e donne che non attendono altro di conoscere un Dio che sia capace di amare e a cui noi dobbiamo dare una risposta o meglio dobbiamo mostrare un volto, il volto di un Dio Padre/Madre che in nome dell’amore non esita a soffrire e morire per la salvezza dei propri figli. Troveranno in noi i Filippo e gli Andrea capaci di condurli e mostrargli Gesù?
La risposta di Gesù sembra incomprensibile e probabilmente in quel giorno di festa, nessuno ha inteso il senso di queste parole; come ben sappiamo i vangeli furono scritti molto tempo dopo la morte e resurrezione di Gesù e forse qui Giovanni ritornando indietro con i ricordi mette in quell’occasione in bocca a Gesù parole nuove che vogliono spiegare il senso di quella sua morte e di quella particolare morte violenta e vergognosa. Se non mi sbaglio è la prima volta che Gesù nel vangelo di Giovanni annuncia il giungere di quell’ora che fino a quel momento appariva non arrivare mai: a Cana durante le nozze in risposta alla madre che gli chiedeva di provvedere perché era venuto a mancare il vino (Gv 2,4), nel tempio quando vennero per arrestarlo mentre predicava ma non lo fecero (Gv 8,20). Quest’ora è l’ora della glorificazione, l’ora in cui in modo sublime Gesù mostrerà il vero volto di Dio, di un Dio che ci ama “da morire”!
Gesù poi concluderà con le stesse parole che aveva già detto qualche anno prima a Nicodemo perché da quel trono glorioso che sarà la sua croce Gesù sarà capace di attirare tutti gli uomini verso di Lui, ma che cosa si nasconde nel Crocifisso per avere questo potere di attrazione? Non è bello, non è simpatico, non è vincente, non è entusiasmante, anzi è l’esatto contrario di tutto questo, è un crocifisso, un semplice corpo, sfigurato (Cfr Is 52,14), considerato un maledetto (Dt 21,23) e moribondo. È vero, ma è sulla croce che si manifesterà la condizione divina di Gesù e quando lui sarà morto, il suo amore sarà compreso universalmente; mentre una dottrina, una teologia dipende dal contesto culturale, dalle sue formulazioni storiche, l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere e l’amore di Dio, manifestatosi in Gesù sulla croce, sarà l’unico linguaggio che tutta l’umanità potrà comprendere. Una cosa sola, infatti, si nasconde nel Crocifisso, e nascondendosi si rivela con l’inarrestabile forza della testimonianza: l’incredibile amore di Dio per tutti e tutte! L’amore è invisibile agli occhi, lo si può cogliere soltanto nei gesti e negli atteggiamenti di chi ci vuole bene. Per questo, in Gesù crocifisso, nella sua vita donata fino all’ultimo, possiamo percepire l’amore incondizionato ed eterno di Dio. In realtà, cominciamo ad essere cristiani quando ci sentiamo “attratti” da Gesù, cominciamo ad intendere qualcosa della fede solo quando ci sentiamo amati da Dio. L’ho già scritto più volte e lo ripeto convintamente in ogni occasione “io non sono cristiano perché credo in Dio, ma perché sono certo che sono amato da Dio!”. La gloria di Dio è la croce. perché lì che posso incontrare un Dio che non chiede, ma dona, perché lì scopro la bella notizia di un Dio follemente innamorato di me!
Attenzione sarebbe una bestemmia affermare che Dio abbia voluto quella morte per il suo Figlio; non è la sofferenza che ci salva, ma l’amore perché ci rende capaci di offrire per l’altro tutto noi stessi e per spiegare la forza che contiene la sua morte in croce, Gesù usa una immagine semplice, che tutti possiamo intendere: è l’immagine del seme che se non muore, se rimane solo non può produrre frutto; ricordo ancora il volto del nonno quando tornava dalla semina, fatta rigorosamente a mano gettando quei semi di grano sul terreno appena arato: buttare a terra quel buon grano sembrava metterlo in crisi moralmente, eppure quel gesto così difficile e duro ritrovava ogni anno il suo senso nel raccolto estivo.
In queste parole di Gesù è condensato il paradosso del vangelo, il paradosso dell’amore e della vita vissuta nella logica del cuore di Dio dove morire è vivere, perdere è guadagnare, servire è potere! Quando faccio qualcosa per lei, spesso litigo con mia moglie perché le dico, avendo io ragione, che deve lasciarmi fare altrimenti non riuscirò mai a colmare tutto l’amore e tutti i doni che da lei ricevuti quotidianamente. Questo sentire è l’unica regola e legge dell’amore!
Eh sì, per dare frutto, il chicco di grano deve scomparire nella terra e con questo linguaggio così chiaro, semplice e colmo di forza, Gesù lascia intravvedere che la sua morte non è una rovina, la fine di tutto, ma è ciò che dà fecondità alla sua vita ed insegna anche a noi suoi discepoli a vivere secondo questa stessa legge paradossale: per dare vita è necessario “morire”.
Ecco la necessità della passione e morte di Gesù non per espiare i nostri peccati, ma per seminare nei nostri cuori l’amore che è vero soltanto se donato completamente all’altro senza trattenersi nulla. La morte di Gesù è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, marcire per dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga e così anche per noi, che tentiamo di essere suoi discepoli, diventa necessario morire, cadere a terra, scomparire per dare frutto; questa è la grande legge della vita e del vangelo: servire, donarsi, spendersi perché altri vivano; in fondo per passare da “io” a “Dio” non bisogna far altro che aggiungere la “D” di “donare” che poi è l’esplicitazione dell’amore!
L’ironia è che chi non vuole morire, trasformarsi, cambiare, crescere attraverso il dono di sé morirà veramente, rimarrà solo, perché non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti; morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la realtà, con la dura realtà della vita soprattutto in questi nostri giorni segnati dalla pandemia, ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole, sporcandosi le mani per costruire un regno di giustizia e di pace.
Cadere a terra vuol dire scontrarsi con le persone che non sempre sono come noi vorremmo e confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, al sapere tutto, al non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere, vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l’umiltà di riconoscerli; cadere a terra è quello che questa tremenda pandemia ci sta costringendo a vivere. Tutto questo ci fa male, perché è come morire ed annienta l’immagine di “persone brave e buone” che abbiamo di noi, di persone, che, come l’uomo della pubblicità di un dopobarba di diversi anni fa, “non devono chiedere mai”!
Ma niente di nuovo, di bello, di fruttuoso può nascere, se non abbiamo il coraggio di “cadere a terra” perché la vera morte è la sterilità di chi non dona, di chi non spende la propria vita, ma vuole conservarla gelosamente per sé, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, piena, eterna, per noi e per gli altri. La vita è amare, amare è servire, servire è vivere nella gioia!
La risposta di Gesù sembra incomprensibile e probabilmente in quel giorno di festa, nessuno ha inteso il senso di queste parole; come ben sappiamo i vangeli furono scritti molto tempo dopo la morte e resurrezione di Gesù e forse qui Giovanni ritornando indietro con i ricordi mette in quell’occasione in bocca a Gesù parole nuove che vogliono spiegare il senso di quella sua morte e di quella particolare morte violenta e vergognosa. Se non mi sbaglio è la prima volta che Gesù nel vangelo di Giovanni annuncia il giungere di quell’ora che fino a quel momento appariva non arrivare mai: a Cana durante le nozze in risposta alla madre che gli chiedeva di provvedere perché era venuto a mancare il vino (Gv 2,4), nel tempio quando vennero per arrestarlo mentre predicava ma non lo fecero (Gv 8,20). Quest’ora è l’ora della glorificazione, l’ora in cui in modo sublime Gesù mostrerà il vero volto di Dio, di un Dio che ci ama “da morire”!
Gesù poi concluderà con le stesse parole che aveva già detto qualche anno prima a Nicodemo perché da quel trono glorioso che sarà la sua croce Gesù sarà capace di attirare tutti gli uomini verso di Lui, ma che cosa si nasconde nel Crocifisso per avere questo potere di attrazione? Non è bello, non è simpatico, non è vincente, non è entusiasmante, anzi è l’esatto contrario di tutto questo, è un crocifisso, un semplice corpo, sfigurato (Cfr Is 52,14), considerato un maledetto (Dt 21,23) e moribondo. È vero, ma è sulla croce che si manifesterà la condizione divina di Gesù e quando lui sarà morto, il suo amore sarà compreso universalmente; mentre una dottrina, una teologia dipende dal contesto culturale, dalle sue formulazioni storiche, l’amore è linguaggio universale che tutti possono comprendere e l’amore di Dio, manifestatosi in Gesù sulla croce, sarà l’unico linguaggio che tutta l’umanità potrà comprendere. Una cosa sola, infatti, si nasconde nel Crocifisso, e nascondendosi si rivela con l’inarrestabile forza della testimonianza: l’incredibile amore di Dio per tutti e tutte! L’amore è invisibile agli occhi, lo si può cogliere soltanto nei gesti e negli atteggiamenti di chi ci vuole bene. Per questo, in Gesù crocifisso, nella sua vita donata fino all’ultimo, possiamo percepire l’amore incondizionato ed eterno di Dio. In realtà, cominciamo ad essere cristiani quando ci sentiamo “attratti” da Gesù, cominciamo ad intendere qualcosa della fede solo quando ci sentiamo amati da Dio. L’ho già scritto più volte e lo ripeto convintamente in ogni occasione “io non sono cristiano perché credo in Dio, ma perché sono certo che sono amato da Dio!”. La gloria di Dio è la croce. perché lì che posso incontrare un Dio che non chiede, ma dona, perché lì scopro la bella notizia di un Dio follemente innamorato di me!
Attenzione sarebbe una bestemmia affermare che Dio abbia voluto quella morte per il suo Figlio; non è la sofferenza che ci salva, ma l’amore perché ci rende capaci di offrire per l’altro tutto noi stessi e per spiegare la forza che contiene la sua morte in croce, Gesù usa una immagine semplice, che tutti possiamo intendere: è l’immagine del seme che se non muore, se rimane solo non può produrre frutto; ricordo ancora il volto del nonno quando tornava dalla semina, fatta rigorosamente a mano gettando quei semi di grano sul terreno appena arato: buttare a terra quel buon grano sembrava metterlo in crisi moralmente, eppure quel gesto così difficile e duro ritrovava ogni anno il suo senso nel raccolto estivo.
In queste parole di Gesù è condensato il paradosso del vangelo, il paradosso dell’amore e della vita vissuta nella logica del cuore di Dio dove morire è vivere, perdere è guadagnare, servire è potere! Quando faccio qualcosa per lei, spesso litigo con mia moglie perché le dico, avendo io ragione, che deve lasciarmi fare altrimenti non riuscirò mai a colmare tutto l’amore e tutti i doni che da lei ricevuti quotidianamente. Questo sentire è l’unica regola e legge dell’amore!
Eh sì, per dare frutto, il chicco di grano deve scomparire nella terra e con questo linguaggio così chiaro, semplice e colmo di forza, Gesù lascia intravvedere che la sua morte non è una rovina, la fine di tutto, ma è ciò che dà fecondità alla sua vita ed insegna anche a noi suoi discepoli a vivere secondo questa stessa legge paradossale: per dare vita è necessario “morire”.
Ecco la necessità della passione e morte di Gesù non per espiare i nostri peccati, ma per seminare nei nostri cuori l’amore che è vero soltanto se donato completamente all’altro senza trattenersi nulla. La morte di Gesù è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, marcire per dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga e così anche per noi, che tentiamo di essere suoi discepoli, diventa necessario morire, cadere a terra, scomparire per dare frutto; questa è la grande legge della vita e del vangelo: servire, donarsi, spendersi perché altri vivano; in fondo per passare da “io” a “Dio” non bisogna far altro che aggiungere la “D” di “donare” che poi è l’esplicitazione dell’amore!
L’ironia è che chi non vuole morire, trasformarsi, cambiare, crescere attraverso il dono di sé morirà veramente, rimarrà solo, perché non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti; morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la realtà, con la dura realtà della vita soprattutto in questi nostri giorni segnati dalla pandemia, ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole, sporcandosi le mani per costruire un regno di giustizia e di pace.
Cadere a terra vuol dire scontrarsi con le persone che non sempre sono come noi vorremmo e confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, al sapere tutto, al non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere, vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l’umiltà di riconoscerli; cadere a terra è quello che questa tremenda pandemia ci sta costringendo a vivere. Tutto questo ci fa male, perché è come morire ed annienta l’immagine di “persone brave e buone” che abbiamo di noi, di persone, che, come l’uomo della pubblicità di un dopobarba di diversi anni fa, “non devono chiedere mai”!
Ma niente di nuovo, di bello, di fruttuoso può nascere, se non abbiamo il coraggio di “cadere a terra” perché la vera morte è la sterilità di chi non dona, di chi non spende la propria vita, ma vuole conservarla gelosamente per sé, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, piena, eterna, per noi e per gli altri. La vita è amare, amare è servire, servire è vivere nella gioia!
Commento 18 marzo 2018
Nel vangelo di oggi incontriamo “alcuni greci”, probabilmente proseliti, cioè pagani che si erano lasciati affascinare e conquistare dall’unico Dio di Israele e che tentavano di seguire, onorare e servire Dio rispondendo positivamente ad alcuni comandamenti come l’osservanza del sabato, l’offerta di sacrifici e i pellegrinaggi nelle grandi feste in particolare quello di Pasqua: questo episodio avviene, secondo quanto scrive Giovanni, proprio quattro giorni prima della crocifissione di Gesù.
In quel gruppo di greci, Giovanni vi intravede tutti coloro che tentano di avvinarsi ed intendono diventare discepoli di Cristo, come era successo a lui un giorno, quando il suo primo maestro, Giovanni Battista gli indicò Gesù, che lui aveva poco prima battezzato, dicendogli parole che forse non aveva ancora pienamente capito, ma che gli erano rimaste nel cuore: “Ecco l’agnello di Dio!”
Quel giorno insieme ad Andrea, seguì Gesù che lo chiamava con quelle parole che rimasero per sempre nel suo cuore “Venite e vedrete”. Erano passati tre anni ma chissà quale emozione provò Andrea nel riascoltare quella parola “vedere” in quella strana richiesta di alcuni greci. Come allora il verbo usato “orao” non indica una pura curiosità, ma un fare esperienza, si tratta di un vedere in profondità non accontentandosi delle apparenze.
Vedere Dio è una richiesta che fa parte dell’eterno bisogno dell’uomo che cerca e ci chiede: Mostrami il tuo Dio, fammi vedere in chi credi davvero, ma Dio non si dimostra, con catechesi o ragionamenti, si mostra con mani piene d’amore e una vita abitata da Lui. Siamo noi oggi, popolo di Dio in cammino sulle vie del mondo, che abbiamo il compito di testimoniare, manifestare e di far fare esperienza di Dio a tutti coloro che sono lontani e in qualche modo ci chiedono di poter vedere Dio. Per essere testimoni siamo chiamati a vivere di quella stessa gloria con cui il Cristo fu glorificato, una gloria ben diversa dal vanto umano. Se la gloria di questo mondo è segnata dal successo, quando ci ripieghiamo egoisticamente su noi stessi avendo gli altri al nostro servizio, Gesù vive la sua gloria nel donare il massimo possibile di amore.
Gesù offre ai discepoli due immagini: una semplice parabola e la sua croce, verso cui chiede di fissare il nostro sguardo come punto cardinale della sua e nostra vita.
La prima immagine è quella del chicco di grano: se cerchiamo il centro della parabola, la nostra attenzione è subito attratta dal verbo “morire”, ma a me pare che l’accento vada a cadere su due altri verbi, sono loro quelli principali: rimanere solo o produrre molto frutto. Il senso della vita di Cristo, e quindi di ogni uomo pienamente realizzato, si gioca sul frutto, sulla fecondità, sulla vita abbondante che Gesù è venuto a portare: non è certamente il morire che dà gloria a Dio, ma una vita vissuta in pienezza. Questa immagine dà senso a tutta la vita di Gesù, la sua è stata una vita donata, spesa per amore, per produrre vita. Guardiamo oggi al frutto di quella vita, a quanti uomini e donne hanno saputo spendersi, seguendo il suo esempio, per amore dei fratelli e non solo nella Chiesa e tra i santi. Siamo allora chiamati a fare esperienza di Dio vivendo come Lui, donando la nostra vita fino all’estremo. Ecco la conclusione: se vuoi mantenere, conservare la tua vita mentre ogni giorno pare sfuggirti dalle mani, donala, offrila, spendila per amore ed otterrai la vita eterna, quella vera e piena. Gesù non vuole dei servi, degli schiavi, ma qualcuno disponibile a condividere la sua proposta d’amore, quel nuovo progetto di uomo che Lui è venuto ad introdurre in questo mondo. Dove l’uomo è deturpato dal peccato, dove c’è malattia fisica o spirituale, dove c’è povertà, sopruso, emarginazione, ovunque ci sia qualcuno che ha bisogno d’amore, lì c’è Gesù e con Lui tutti coloro che vogliono essere i suoi discepoli, mettendo la vita a disposizione di questo disegno di amore.
La seconda immagine che Gesù offre di sé è la croce: “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Cari amici, ve lo confesso non sono cristiano per educazione, anche se non smetto ogni giorno di ricordare nelle mie preghiere coloro che mi hanno trasmesso la fede, io sono cristiano per attrazione, sedotto dalla bellezza dell’amore di Cristo; qualcosa che la mente non capisce ed il cuore fatica a contenere, una bellezza suprema, che brilla da una collina appena fuori Gerusalemme, quando l’infinito amore si lascia inchiodare in un eterno e tenero abbraccio che da allora scalda il cuore di ogni uomo. Gesù muore, donandosi fino alla fine per poi risorgere, germe di vita immortale, perché ciò che si oppone alla morte non è la vita, ma l’amore.
In quel gruppo di greci, Giovanni vi intravede tutti coloro che tentano di avvinarsi ed intendono diventare discepoli di Cristo, come era successo a lui un giorno, quando il suo primo maestro, Giovanni Battista gli indicò Gesù, che lui aveva poco prima battezzato, dicendogli parole che forse non aveva ancora pienamente capito, ma che gli erano rimaste nel cuore: “Ecco l’agnello di Dio!”
Quel giorno insieme ad Andrea, seguì Gesù che lo chiamava con quelle parole che rimasero per sempre nel suo cuore “Venite e vedrete”. Erano passati tre anni ma chissà quale emozione provò Andrea nel riascoltare quella parola “vedere” in quella strana richiesta di alcuni greci. Come allora il verbo usato “orao” non indica una pura curiosità, ma un fare esperienza, si tratta di un vedere in profondità non accontentandosi delle apparenze.
Vedere Dio è una richiesta che fa parte dell’eterno bisogno dell’uomo che cerca e ci chiede: Mostrami il tuo Dio, fammi vedere in chi credi davvero, ma Dio non si dimostra, con catechesi o ragionamenti, si mostra con mani piene d’amore e una vita abitata da Lui. Siamo noi oggi, popolo di Dio in cammino sulle vie del mondo, che abbiamo il compito di testimoniare, manifestare e di far fare esperienza di Dio a tutti coloro che sono lontani e in qualche modo ci chiedono di poter vedere Dio. Per essere testimoni siamo chiamati a vivere di quella stessa gloria con cui il Cristo fu glorificato, una gloria ben diversa dal vanto umano. Se la gloria di questo mondo è segnata dal successo, quando ci ripieghiamo egoisticamente su noi stessi avendo gli altri al nostro servizio, Gesù vive la sua gloria nel donare il massimo possibile di amore.
Gesù offre ai discepoli due immagini: una semplice parabola e la sua croce, verso cui chiede di fissare il nostro sguardo come punto cardinale della sua e nostra vita.
La prima immagine è quella del chicco di grano: se cerchiamo il centro della parabola, la nostra attenzione è subito attratta dal verbo “morire”, ma a me pare che l’accento vada a cadere su due altri verbi, sono loro quelli principali: rimanere solo o produrre molto frutto. Il senso della vita di Cristo, e quindi di ogni uomo pienamente realizzato, si gioca sul frutto, sulla fecondità, sulla vita abbondante che Gesù è venuto a portare: non è certamente il morire che dà gloria a Dio, ma una vita vissuta in pienezza. Questa immagine dà senso a tutta la vita di Gesù, la sua è stata una vita donata, spesa per amore, per produrre vita. Guardiamo oggi al frutto di quella vita, a quanti uomini e donne hanno saputo spendersi, seguendo il suo esempio, per amore dei fratelli e non solo nella Chiesa e tra i santi. Siamo allora chiamati a fare esperienza di Dio vivendo come Lui, donando la nostra vita fino all’estremo. Ecco la conclusione: se vuoi mantenere, conservare la tua vita mentre ogni giorno pare sfuggirti dalle mani, donala, offrila, spendila per amore ed otterrai la vita eterna, quella vera e piena. Gesù non vuole dei servi, degli schiavi, ma qualcuno disponibile a condividere la sua proposta d’amore, quel nuovo progetto di uomo che Lui è venuto ad introdurre in questo mondo. Dove l’uomo è deturpato dal peccato, dove c’è malattia fisica o spirituale, dove c’è povertà, sopruso, emarginazione, ovunque ci sia qualcuno che ha bisogno d’amore, lì c’è Gesù e con Lui tutti coloro che vogliono essere i suoi discepoli, mettendo la vita a disposizione di questo disegno di amore.
La seconda immagine che Gesù offre di sé è la croce: “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Cari amici, ve lo confesso non sono cristiano per educazione, anche se non smetto ogni giorno di ricordare nelle mie preghiere coloro che mi hanno trasmesso la fede, io sono cristiano per attrazione, sedotto dalla bellezza dell’amore di Cristo; qualcosa che la mente non capisce ed il cuore fatica a contenere, una bellezza suprema, che brilla da una collina appena fuori Gerusalemme, quando l’infinito amore si lascia inchiodare in un eterno e tenero abbraccio che da allora scalda il cuore di ogni uomo. Gesù muore, donandosi fino alla fine per poi risorgere, germe di vita immortale, perché ciò che si oppone alla morte non è la vita, ma l’amore.