XXII domenica T.O. Anno A
Vangelo Mt 16, 21-27
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».
Commento 3 settembre 2023 |
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Ancora una volta è Pietro il protagonista del vangelo di oggi; proprio per questo motivo non è possibile coglierne l’annuncio, il significato per ciascuno di noi, senza ritornare a quanto abbiamo ascoltato la scorsa settimana.
Ci sentiamo ancora profondamente interpellati da quella domanda d’amore che Gesù pone ad ogni uomo e donna che desidera essere suo discepolo: “ma chi sono io per te?”; ci sentiamo rappresentati dalla stupenda risposta di Pietro: “tu sei il Messia, l’inviato del Padre per mostrarci il volto misericordioso del Dio della vita!”; forse desideriamo essere riconosciuti dal Signore con un nome nuovo che sia segno di una vita altrettanto nuova, o che ci vengano consegnate le chiavi del regno, la capacità di portare gioia ed amore in questo mondo che sembra in troppe occasioni in balia del male, o ancora che ci sia data la capacità di sciogliere e di legare per distruggere i muri che dividono e costruire ponti perché tutti tornino a riconoscersi fratelli e sorelle, figli di un unico Dio.
Dopo quel momento esaltante, Gesù chiede ai discepoli di non rivelare per il momento che Egli era il Messia e comincia ad indicare la meta del suo cammino: andare a Gerusalemme dove avrebbe molto sofferto a causa degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Mi piace sottolineare quel verbo “doveva”, che più volte troviamo nei vangeli e che viene ad assumere un significato tecnico: qui “dovere” non indica da parte di Gesù l’imposizione dall’alto ad eseguire degli ordini di qualcuno neppure di Dio, ma piuttosto un “dovere” morale, una sorta di “imperativo categorico” (Kant), che nasce dal suo essere Figlio di Dio, perfetta immagine del Padre che è amore.
Ecco la necessità impellente di andare a Gerusalemme, la capitale, la sede dell’autorità politica e religiosa per porre fine a quel mondo fondato sulla logica del potere del più forte, sull’oppressione e sulla violenza. Proprio lì a Gerusalemme ci sarà lo scontro finale con i fautori del mondo vecchio: gli anziani, ovvero i custodi delle tradizioni; i capi dei sacerdoti, custodi di una religione corrotta segnata solo da un rapporto commerciale con Dio con offerte e liturgie per ottenere benedizioni; gli scribi, custodi della Parola che presentavano al popolo il volto deturpato di un Dio giudice inesorabile e non Padre misericordioso.
Credo che per commentare tutto ciò non ci siano parole migliori che quelle di “Smisurata preghiera” di De André: Gesù è colui che “viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità”.
Pietro reagisce a queste parole, perché il Messia, nella sua concezione religiosa e nelle sue aspettative era destinato al trionfo, a liberare finalmente il “popolo di Dio” da tutti gli oppressori stranieri e a riformare, purificandole, le istituzioni religiose corrotte; prende da una parte Gesù per ammonirlo, minacciarlo, “esorcizzarlo” (questo appare il senso del verbo greco utilizzato) perché Dio lo liberi da quel demone che gli fa annunciare un Dio così ingenuo ed ingiusto da amare tutti infinitamente. Ora Simone che non segue più la logica di Dio riceve un nuovo nome, non è più “Pietro”, ma “Satana”!
Stupenda e consolante è la figura di Pietro perché è come me, come ciascuno di noi: in questo suo cammino verso Dio, Pietro si mostra pieno di slanci di entusiasmo, ma anche pieno di incoerenze, di difficoltà, di paure quando si allontana dall’unica roccia, Dio, che gli consente di essere solido e forte. Possiamo davvero affermare che “siamo tutti Pietro” quando ci lasciamo illuminare dal suo amore, ma anche “siamo tutti Satana” quando il nostro sguardo si allontana dal volto di quel Dio che è Padre/Madre che ci ama in modo infinito.
A Simone, figlio di Giona, e a tutti noi, discepoli come lui, Gesù chiede di non metterci in prima fila, ma di tornare a camminare “dietro lui”, tornare ad essere discepolo pronto ad accogliere il vangelo di Dio, perché solo così sapremo ritrovare la nostra felicità; solo così non saremo satana, nemico, ostacolo, pietra di inciampo al progetto di Dio.
Gesù introduce la sua proposta di vita con parole così liberanti che ogni volta che le ascolto mi scaldano il cuore “Se qualcuno vuole venire dietro a me”: è la meraviglia di un Dio che si presenta a me mendicante d’amore, che non impone nulla perché nell’amore non ci può essere imposizione altrimenti sarebbe violenza, ma che si inginocchia di fronte alla nostra libertà e ci invita a seguirlo, a vivere la nostra storia per Lui, con Lui ed in Lui perché la nostra vita sia una vera benedizione per il mondo!
Questa proposta è presentata con tre imperativi che una interpretazione scorretta ha travisato come indicazioni perentorie, ma che, con Ermes Ronchi, potremmo meglio chiamarli tre “condizioni da vertigine per chi è chiamato a volare alto”, per chi ha scelto di vivere per amare.
La prima è rinnegare sé stessi che non significa annullarsi, mortificare tutto ciò che ci dà gioia, rinnegarsi non è l’esaltazione del sacrificio e del dolore offerto a Dio; Gesù non chiede al discepolo di rinunciare alla gioia o a qualcosa, ma di operare una conversione di logica, smettendola di pensare sempre e solo a sé stessi per fare dell’amore verso gli altri il senso compiuto della nostra vita.
La seconda è prendere la propria croce: ora questa non è un’esortazione alla rassegnazione e, se è vero, che le croci della vita devono essere sopportate, è ancor più vero che Dio non manda nessuna croce. I discepoli non sono chiamati ad essere “poveri disgraziati con alcune tendenze masochistiche nel sopportare le croci”, ma donne e uomini che intendono seguire Gesù sulla sua strada, una strada che spesso conduce al Golgota. La croce, non dimentichiamolo mai, è il riassunto dell'intera vita di Gesù ed allora prendere la croce significa vivere una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Gesù ha faticato ad accettare la croce ma è disposto ad accoglierla non per ottenere la nostra pietà e comprensione, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d’amore; la croce è scandalo per chi crede nell’onnipotenza di Dio ed è follia per i sapienti di questo mondo, ma per chi crede in Gesù Cristo è il risultato di un Dio che ama l’uomo … da morire! Gesù conosce il suo destino perché a quello lo porterà la sua passione per Dio e per l’uomo e questa sarà la strada che siamo chiamati a percorrere anche noi se vorremo non tradire queste passioni!
La terza è seguire Gesù, mettere i nostri passi sulle orme dei suoi passi per non smarrire la strada, guardare il mondo con i suoi occhi per scorgere in ogni persona colui del quale devo farmi prossimo.
In conclusione vorrei proporre ai biblisti per la prossima traduzione della Bibbia di sostituire al termine “croce”, la parola “amore” perché a quel punto la proposta di Gesù suonerebbe alle nostre orecchie così: “se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”. A quel punto non potrei che urlare con tutto il cuore: “Sì, Signore, io ci sono!”
Ci sentiamo ancora profondamente interpellati da quella domanda d’amore che Gesù pone ad ogni uomo e donna che desidera essere suo discepolo: “ma chi sono io per te?”; ci sentiamo rappresentati dalla stupenda risposta di Pietro: “tu sei il Messia, l’inviato del Padre per mostrarci il volto misericordioso del Dio della vita!”; forse desideriamo essere riconosciuti dal Signore con un nome nuovo che sia segno di una vita altrettanto nuova, o che ci vengano consegnate le chiavi del regno, la capacità di portare gioia ed amore in questo mondo che sembra in troppe occasioni in balia del male, o ancora che ci sia data la capacità di sciogliere e di legare per distruggere i muri che dividono e costruire ponti perché tutti tornino a riconoscersi fratelli e sorelle, figli di un unico Dio.
Dopo quel momento esaltante, Gesù chiede ai discepoli di non rivelare per il momento che Egli era il Messia e comincia ad indicare la meta del suo cammino: andare a Gerusalemme dove avrebbe molto sofferto a causa degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Mi piace sottolineare quel verbo “doveva”, che più volte troviamo nei vangeli e che viene ad assumere un significato tecnico: qui “dovere” non indica da parte di Gesù l’imposizione dall’alto ad eseguire degli ordini di qualcuno neppure di Dio, ma piuttosto un “dovere” morale, una sorta di “imperativo categorico” (Kant), che nasce dal suo essere Figlio di Dio, perfetta immagine del Padre che è amore.
Ecco la necessità impellente di andare a Gerusalemme, la capitale, la sede dell’autorità politica e religiosa per porre fine a quel mondo fondato sulla logica del potere del più forte, sull’oppressione e sulla violenza. Proprio lì a Gerusalemme ci sarà lo scontro finale con i fautori del mondo vecchio: gli anziani, ovvero i custodi delle tradizioni; i capi dei sacerdoti, custodi di una religione corrotta segnata solo da un rapporto commerciale con Dio con offerte e liturgie per ottenere benedizioni; gli scribi, custodi della Parola che presentavano al popolo il volto deturpato di un Dio giudice inesorabile e non Padre misericordioso.
Credo che per commentare tutto ciò non ci siano parole migliori che quelle di “Smisurata preghiera” di De André: Gesù è colui che “viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità”.
Pietro reagisce a queste parole, perché il Messia, nella sua concezione religiosa e nelle sue aspettative era destinato al trionfo, a liberare finalmente il “popolo di Dio” da tutti gli oppressori stranieri e a riformare, purificandole, le istituzioni religiose corrotte; prende da una parte Gesù per ammonirlo, minacciarlo, “esorcizzarlo” (questo appare il senso del verbo greco utilizzato) perché Dio lo liberi da quel demone che gli fa annunciare un Dio così ingenuo ed ingiusto da amare tutti infinitamente. Ora Simone che non segue più la logica di Dio riceve un nuovo nome, non è più “Pietro”, ma “Satana”!
Stupenda e consolante è la figura di Pietro perché è come me, come ciascuno di noi: in questo suo cammino verso Dio, Pietro si mostra pieno di slanci di entusiasmo, ma anche pieno di incoerenze, di difficoltà, di paure quando si allontana dall’unica roccia, Dio, che gli consente di essere solido e forte. Possiamo davvero affermare che “siamo tutti Pietro” quando ci lasciamo illuminare dal suo amore, ma anche “siamo tutti Satana” quando il nostro sguardo si allontana dal volto di quel Dio che è Padre/Madre che ci ama in modo infinito.
A Simone, figlio di Giona, e a tutti noi, discepoli come lui, Gesù chiede di non metterci in prima fila, ma di tornare a camminare “dietro lui”, tornare ad essere discepolo pronto ad accogliere il vangelo di Dio, perché solo così sapremo ritrovare la nostra felicità; solo così non saremo satana, nemico, ostacolo, pietra di inciampo al progetto di Dio.
Gesù introduce la sua proposta di vita con parole così liberanti che ogni volta che le ascolto mi scaldano il cuore “Se qualcuno vuole venire dietro a me”: è la meraviglia di un Dio che si presenta a me mendicante d’amore, che non impone nulla perché nell’amore non ci può essere imposizione altrimenti sarebbe violenza, ma che si inginocchia di fronte alla nostra libertà e ci invita a seguirlo, a vivere la nostra storia per Lui, con Lui ed in Lui perché la nostra vita sia una vera benedizione per il mondo!
Questa proposta è presentata con tre imperativi che una interpretazione scorretta ha travisato come indicazioni perentorie, ma che, con Ermes Ronchi, potremmo meglio chiamarli tre “condizioni da vertigine per chi è chiamato a volare alto”, per chi ha scelto di vivere per amare.
La prima è rinnegare sé stessi che non significa annullarsi, mortificare tutto ciò che ci dà gioia, rinnegarsi non è l’esaltazione del sacrificio e del dolore offerto a Dio; Gesù non chiede al discepolo di rinunciare alla gioia o a qualcosa, ma di operare una conversione di logica, smettendola di pensare sempre e solo a sé stessi per fare dell’amore verso gli altri il senso compiuto della nostra vita.
La seconda è prendere la propria croce: ora questa non è un’esortazione alla rassegnazione e, se è vero, che le croci della vita devono essere sopportate, è ancor più vero che Dio non manda nessuna croce. I discepoli non sono chiamati ad essere “poveri disgraziati con alcune tendenze masochistiche nel sopportare le croci”, ma donne e uomini che intendono seguire Gesù sulla sua strada, una strada che spesso conduce al Golgota. La croce, non dimentichiamolo mai, è il riassunto dell'intera vita di Gesù ed allora prendere la croce significa vivere una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Gesù ha faticato ad accettare la croce ma è disposto ad accoglierla non per ottenere la nostra pietà e comprensione, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d’amore; la croce è scandalo per chi crede nell’onnipotenza di Dio ed è follia per i sapienti di questo mondo, ma per chi crede in Gesù Cristo è il risultato di un Dio che ama l’uomo … da morire! Gesù conosce il suo destino perché a quello lo porterà la sua passione per Dio e per l’uomo e questa sarà la strada che siamo chiamati a percorrere anche noi se vorremo non tradire queste passioni!
La terza è seguire Gesù, mettere i nostri passi sulle orme dei suoi passi per non smarrire la strada, guardare il mondo con i suoi occhi per scorgere in ogni persona colui del quale devo farmi prossimo.
In conclusione vorrei proporre ai biblisti per la prossima traduzione della Bibbia di sostituire al termine “croce”, la parola “amore” perché a quel punto la proposta di Gesù suonerebbe alle nostre orecchie così: “se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”. A quel punto non potrei che urlare con tutto il cuore: “Sì, Signore, io ci sono!”
Commento 30 agosto 2020
Non è possibile leggere il vangelo di oggi senza ritornare a quanto abbiamo ascoltato la scorsa settimana con ancora nel cuore quella domanda che Gesù pone ad ogni uomo e donna che desidera essere suo discepolo: ma chi sono io per te? Abbiamo ancora negli orecchi la stupenda risposta di Pietro: tu sei il Messia, l’inviato del Padre per mostrarci il volto misericordioso del Dio della vita!
Gesù chiede ai discepoli di non rivelare per il momento che Egli era il Messia e comincia ad indicare la meta del suo cammino: andare a Gerusalemme dove avrebbe molto sofferto a causa degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Mi piace sottolineare innanzitutto quel verbo “doveva”, che più volte troviamo nei vangeli e che viene ad assumere un significato tecnico: qui “dovere” non indica da parte di Gesù un eseguire degli ordini di qualcuno neppure di Dio, ma è un “dovere” morale, un imperativo categorico, che nasce dal suo essere Figlio di Dio, perfetta immagine del Padre che è amore; di qui la necessità di andare a Gerusalemme, la capitale, la sede del potere politico e religioso per porre fine a quel mondo fondato sulla logica del potere del più forte, sull’oppressione e sulla violenza.
Credo che per commentare tutto ciò non ci siano parole migliori che quelle di De André: “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità”
Proprio lì a Gerusalemme ci sarà lo scontro finale con i fautori del mondo vecchio: gli anziani, ovvero i custodi delle tradizioni; i capi dei sacerdoti, custodi di una religione corrotta segnata solo da un rapporto commerciale con Dio con offerte e liturgie per ottenere benedizioni; gli scribi, custodi della Parola di Dio che presentavano al popolo il volto deturpato di un Dio giudice inesorabile e non Padre misericordioso.
La reazione di Pietro ci incoraggia perché proprio lui, che aveva a nome dei discepoli riconosciuto Gesù come il Messia, ora lo ammonisce, lo minaccia, cerca di esorcizzarlo (questo appare il senso del verbo greco utilizzato) perché Dio lo liberi da quel demone che gli fa annunciare un Dio così ingenuo ed ingiusto da amare tutti infinitamente. Stupenda e consolante è la figura di Pietro perché è come me, come ciascuno di noi: in questo suo cammino verso Dio, Pietro si mostra pieno di slanci di entusiasmo, ma anche pieno di incoerenze, di difficoltà, di paure quando si allontana dall’unica roccia, Dio, che gli consente di essere solido e forte.
A questo discepolo e a noi discepoli come lui, Gesù chiede di non metterci in prima fila, ma di tornare a camminare “dietro lui”, tornare ad essere discepolo pronto ad accogliere il vangelo di Dio, perché solo così sapremo ritrovare la nostra felicità; solo così non saremo satana, cioè nemico, ostacolo, pietra di inciampo al progetto di Dio.
E poi quelle parole così liberanti, così belle “Se qualcuno vuole”: è la meraviglia di un Dio che non impone nulla perché nell’amore non ci può essere imposizione altrimenti sarebbe violenza, ma che si inginocchia di fronte alla nostra libertà e ci invita a seguirlo, a vivere la nostra storia per Lui, con Lui ed in Lui perché la nostra vita sia una vera benedizione per il mondo!
Questa proposta è presentata con tre imperativi che una interpretazione scorretta ha travisato, che non sono ordini, ma tre “condizioni da vertigine” (E. Ronchi) per chi è chiamato a volare alto, per chi ha scelto di vivere per amare:
"Rinneghi sé stesso”: rinnegarsi non significa annullarsi, mortificare tutto ciò che ci dà gioia, rinnegarsi non è l’esaltazione del sacrificio e del dolore offerto a Dio; Gesù non chiede al discepolo di rinunciare alla gioia o a qualcosa, ma di operare una conversione di logica, smettendola di pensare sempre e solo a sè stessi per fare dell’amore verso gli altri il senso compiuto della nostra vita.
“Prenda la sua croce”: non è un’esortazione alla rassegnazione e, se è vero, che le croci della vita devono essere sopportate, è ancor più vero che Dio non manda nessuna croce; qui non si tratta, come poveri sfigati con tendenze masochistiche di sopportare delle croci, ma di fare la scelta che Gesù ha fatto di finire sulla croce. La croce, non dimentichiamolo mai, è il riassunto dell'intera vita di Gesù ed allora prendere la croce significa vivere una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Gesù non è disposto a morire in croce per ottenere la nostra pietà e comprensione, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d’amore; la croce è scandalo per chi crede nell’onnipotenza di Dio ed è follia per i sapienti di questo mondo, ma per chi crede in Gesù Cristo è il risultato di un Dio che ama l’uomo … da morire! Gesù conosce il suo destino perché a quello lo porterà la sua passione per Dio e per l’uomo e questa sarà la strada che siamo chiamati a percorrere anche noi se vorremo non tradire queste passioni! Forse per capire meglio sarebbe preferibile sostituire alla parola “croce” amore e l’invito di Gesù suonerebbe così: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace, e mi segua.
Gesù chiede ai discepoli di non rivelare per il momento che Egli era il Messia e comincia ad indicare la meta del suo cammino: andare a Gerusalemme dove avrebbe molto sofferto a causa degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Mi piace sottolineare innanzitutto quel verbo “doveva”, che più volte troviamo nei vangeli e che viene ad assumere un significato tecnico: qui “dovere” non indica da parte di Gesù un eseguire degli ordini di qualcuno neppure di Dio, ma è un “dovere” morale, un imperativo categorico, che nasce dal suo essere Figlio di Dio, perfetta immagine del Padre che è amore; di qui la necessità di andare a Gerusalemme, la capitale, la sede del potere politico e religioso per porre fine a quel mondo fondato sulla logica del potere del più forte, sull’oppressione e sulla violenza.
Credo che per commentare tutto ciò non ci siano parole migliori che quelle di De André: “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità”
Proprio lì a Gerusalemme ci sarà lo scontro finale con i fautori del mondo vecchio: gli anziani, ovvero i custodi delle tradizioni; i capi dei sacerdoti, custodi di una religione corrotta segnata solo da un rapporto commerciale con Dio con offerte e liturgie per ottenere benedizioni; gli scribi, custodi della Parola di Dio che presentavano al popolo il volto deturpato di un Dio giudice inesorabile e non Padre misericordioso.
La reazione di Pietro ci incoraggia perché proprio lui, che aveva a nome dei discepoli riconosciuto Gesù come il Messia, ora lo ammonisce, lo minaccia, cerca di esorcizzarlo (questo appare il senso del verbo greco utilizzato) perché Dio lo liberi da quel demone che gli fa annunciare un Dio così ingenuo ed ingiusto da amare tutti infinitamente. Stupenda e consolante è la figura di Pietro perché è come me, come ciascuno di noi: in questo suo cammino verso Dio, Pietro si mostra pieno di slanci di entusiasmo, ma anche pieno di incoerenze, di difficoltà, di paure quando si allontana dall’unica roccia, Dio, che gli consente di essere solido e forte.
A questo discepolo e a noi discepoli come lui, Gesù chiede di non metterci in prima fila, ma di tornare a camminare “dietro lui”, tornare ad essere discepolo pronto ad accogliere il vangelo di Dio, perché solo così sapremo ritrovare la nostra felicità; solo così non saremo satana, cioè nemico, ostacolo, pietra di inciampo al progetto di Dio.
E poi quelle parole così liberanti, così belle “Se qualcuno vuole”: è la meraviglia di un Dio che non impone nulla perché nell’amore non ci può essere imposizione altrimenti sarebbe violenza, ma che si inginocchia di fronte alla nostra libertà e ci invita a seguirlo, a vivere la nostra storia per Lui, con Lui ed in Lui perché la nostra vita sia una vera benedizione per il mondo!
Questa proposta è presentata con tre imperativi che una interpretazione scorretta ha travisato, che non sono ordini, ma tre “condizioni da vertigine” (E. Ronchi) per chi è chiamato a volare alto, per chi ha scelto di vivere per amare:
"Rinneghi sé stesso”: rinnegarsi non significa annullarsi, mortificare tutto ciò che ci dà gioia, rinnegarsi non è l’esaltazione del sacrificio e del dolore offerto a Dio; Gesù non chiede al discepolo di rinunciare alla gioia o a qualcosa, ma di operare una conversione di logica, smettendola di pensare sempre e solo a sè stessi per fare dell’amore verso gli altri il senso compiuto della nostra vita.
“Prenda la sua croce”: non è un’esortazione alla rassegnazione e, se è vero, che le croci della vita devono essere sopportate, è ancor più vero che Dio non manda nessuna croce; qui non si tratta, come poveri sfigati con tendenze masochistiche di sopportare delle croci, ma di fare la scelta che Gesù ha fatto di finire sulla croce. La croce, non dimentichiamolo mai, è il riassunto dell'intera vita di Gesù ed allora prendere la croce significa vivere una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Gesù non è disposto a morire in croce per ottenere la nostra pietà e comprensione, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d’amore; la croce è scandalo per chi crede nell’onnipotenza di Dio ed è follia per i sapienti di questo mondo, ma per chi crede in Gesù Cristo è il risultato di un Dio che ama l’uomo … da morire! Gesù conosce il suo destino perché a quello lo porterà la sua passione per Dio e per l’uomo e questa sarà la strada che siamo chiamati a percorrere anche noi se vorremo non tradire queste passioni! Forse per capire meglio sarebbe preferibile sostituire alla parola “croce” amore e l’invito di Gesù suonerebbe così: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace, e mi segua.
Commento 3 settembre 2017
L’inizio del vangelo di oggi in realtà si dovrebbe leggere come necessaria conclusione a quanto letto la settimana scorsa. Se Pietro si era presentato come colui in grado di esprimere a nome del gruppo dei discepoli la vera fede in Gesù, il Cristo, il Messia, l’inviato del Padre per mostrare agli uomini il volto misericordioso di Dio, qui si presenta con l’altra faccia della medaglia della sua, nostra umanità: la caduta, l’incoerenza, il peccato. Pietro si trasforma da uomo di fede e “pietra angolare” su cui costruire la comunità dei seguaci di Cristo in pietra di inciampo, “scandalo” per la fede di quella stessa comunità. Cosa è cambiato? Quell’uomo che aveva accolto ed espresso la logica di Dio nell’affermare la sua fede, ora non è più capace di pensare secondo questa logica e torna a pensare secondo la mentalità degli uomini e soprattutto sembra voler insegnare a Dio a fare il mestiere di Dio. A questo punto sorge spontanea la domanda: ma chi è Pietro in realtà? E di conseguenza chi sono i discepoli di Cristo, essendone lui non solo il portavoce, ma anche simbolicamente il rappresentante? È l’uomo fedele capace di leggere la storia e la vita secondo la volontà di Dio o colui che rimane legato alla mentalità degli uomini e pretende di usare il potere di Dio? La risposta è, a mio parere, semplice: nell’uomo sono presenti entrambe le situazioni e di conseguenza anche la Chiesa, comunità di uomini chiamati a vivere secondo il progetto di Dio, vive la stessa esperienza. Sant’Agostino definiva la Chiesa come “casta et meretrix”, pura e peccatrice, ed aveva ragione perché la Chiesa siamo noi con i nostri pregi e i nostri difetti, i nostri slanci di entusiasmo e le nostre delusioni. A questo discepolo, a noi discepoli come lui, Gesù chiede di non metterci in prima fila, ma di tornare a camminare “dietro lui”, tornare ad essere discepolo pronto ad accogliere il vangelo di Dio, perché solo così sapremo ritrovare la nostra felicità.
Gesù detta le condizioni per seguirlo, per essere felici e sono condizioni da vertigine:
Il discepolo deve rinnegare sé stesso: sono parole pericolose, se capite male. Gesù non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dalla vita piena, riuscita, compiuta, realizzata. Rinnegare sé stessi non significa quindi mortificare la propria persona, significa piuttosto “uscire da noi stessi”, liberarsi dal nostro io per vivere nella logica dell’amore.
Il discepolo deve prendere la sua croce e seguirlo: attenzione perché a questo punto vorrei rileggere quanto secondo me in questi secoli troppe volte è stato travisato, poiché “prendere la propria croce” non vuol dire rassegnarsi alle sfighe che Dio nella sua immensa cattiveria ci manda. Gesù non dice sopporta, ma prendi cioè al discepolo non è chiesto di subire passivamente, ma di prendere attivamente la croce e la croce è il riassunto dell'intera vita di Gesù. Allora prendere la croce significa assumere su di sé una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Non ci chiede quindi di accettare una croce che Dio ci avrebbe mandato, ma di andare oltre Gesù non è disposto a morire in croce per far sì che ci si possa impietosire di fronte ad un “povero cristo crocifisso”, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica della croce redenta, la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d'amore. Forse per capire meglio sarebbe preferibile sostituire alla parola “croce” amore e l’invito di Gesù suonerebbe così: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé il giogo dell'amore, tutto l'amore di cui è capace, e mi segua.
Ma l’amore ha un prezzo a volte salato da pagare e a volte ci si trova soli contro tutti come il profeta Geremia (prima lettura): l’amore non vive la paura, sa solo amare anche se non è contraccambiato.
Chi perderà la propria vita così, la troverà: troppe volte nella logica dell’accettare la sofferenza ci hanno insegnato a mettere l'accento sul perdere la vita, ma qui l’accento non è sul perdere, ma sul trovare, perché ciò di cui dobbiamo essere certi è che la croce non è l’ultima parola; infatti come ci raccontano i vangeli dopo la croce c’è sempre una tomba vuota.
Seguire Gesù, cioè vivere una esistenza che assomiglia alla sua è il modo per trovare la vita, per realizzare pienamente la nostra esistenza.
Perdere per trovare: è la legge della fisica dell'amore per la quale se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci e noi alla fine ci renderemo conto che siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato.
Gesù detta le condizioni per seguirlo, per essere felici e sono condizioni da vertigine:
Il discepolo deve rinnegare sé stesso: sono parole pericolose, se capite male. Gesù non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dalla vita piena, riuscita, compiuta, realizzata. Rinnegare sé stessi non significa quindi mortificare la propria persona, significa piuttosto “uscire da noi stessi”, liberarsi dal nostro io per vivere nella logica dell’amore.
Il discepolo deve prendere la sua croce e seguirlo: attenzione perché a questo punto vorrei rileggere quanto secondo me in questi secoli troppe volte è stato travisato, poiché “prendere la propria croce” non vuol dire rassegnarsi alle sfighe che Dio nella sua immensa cattiveria ci manda. Gesù non dice sopporta, ma prendi cioè al discepolo non è chiesto di subire passivamente, ma di prendere attivamente la croce e la croce è il riassunto dell'intera vita di Gesù. Allora prendere la croce significa assumere su di sé una vita che assomigli a quella di Cristo, vuol dire assumere pienamente la logica dell’amore, del dono, del perdere la propria vita, la logica dell’amore. Non ci chiede quindi di accettare una croce che Dio ci avrebbe mandato, ma di andare oltre Gesù non è disposto a morire in croce per far sì che ci si possa impietosire di fronte ad un “povero cristo crocifisso”, ma per svelare pienamente l’amore di Dio; pertanto “prendere la croce” vuol dire mostrare al mondo il volto misericordioso di Dio ed è inutile affermare a parole la nostra fede, proclamare che Gesù è il Cristo, fare processioni, preghiere e liturgie di varia natura se non abbiamo il coraggio di vivere nella logica di Dio che è la logica della croce redenta, la logica dell’amore che inesorabilmente si dona all’amato.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d'amore. Forse per capire meglio sarebbe preferibile sostituire alla parola “croce” amore e l’invito di Gesù suonerebbe così: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé il giogo dell'amore, tutto l'amore di cui è capace, e mi segua.
Ma l’amore ha un prezzo a volte salato da pagare e a volte ci si trova soli contro tutti come il profeta Geremia (prima lettura): l’amore non vive la paura, sa solo amare anche se non è contraccambiato.
Chi perderà la propria vita così, la troverà: troppe volte nella logica dell’accettare la sofferenza ci hanno insegnato a mettere l'accento sul perdere la vita, ma qui l’accento non è sul perdere, ma sul trovare, perché ciò di cui dobbiamo essere certi è che la croce non è l’ultima parola; infatti come ci raccontano i vangeli dopo la croce c’è sempre una tomba vuota.
Seguire Gesù, cioè vivere una esistenza che assomiglia alla sua è il modo per trovare la vita, per realizzare pienamente la nostra esistenza.
Perdere per trovare: è la legge della fisica dell'amore per la quale se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci e noi alla fine ci renderemo conto che siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato.